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Il no di Napolitano non vincola il governo

La vicenda del decreto legislativo sul federalismo municipale approvato dal Consiglio dei ministri nonostante il parere contrario della Commissione parlamentare, ha innescato il solito polverone politico-mediatico

La vicenda del decreto legislativo sul federalismo municipale approvato dal Consiglio dei ministri nonostante il parere contrario della Commissione parlamentare, ha innescato il solito polverone politico-mediatico, in cui si contrappongono le tesi più diverse. Senza entrare nel merito politico della vicenda, cerchiamo di analizzare i passaggi costituzionali della stessa, e in quest'ambito il ruolo del Governo, quello del Parlamento e quello del Capo dello Stato.
Una legge del 2009 sul "federalismo fiscale" delegava il Governo ad adottare, sulla base dei principi stabiliti dalla legge stessa, più decreti legislativi di attuazione. La Costituzione, infatti, prevede che l'esercizio della funzione legislativa può essere delegato dal Parlamento al Governo, purché la legge stabilisca i principi e criteri direttivi cui il Governo deve attenersi nell'esercizio della delega, l'oggetto della delega ed il termine entro il quale essa deve essere esercitata. Questo istituto trova un impiego massiccio nell'esperienza politico-istituzionale italiana. A partire dagli anni novanta del secolo scorso, il baricentro della produzione normativa si è spostato dal Parlamento al Governo. Il primo si limita ad approvare delle leggi di principio rinviando a decreti legislativi oppure a regolamenti la concreta disciplina della materia.
Le principali riforme adottate nella "Seconda Repubblica" sono state fatte ricorrendo ad atti normativi del Governo (decreti legislativi e regolamenti) sulla base di una previa legge parlamentare. Onde evitare che questa prassi svuotasse del tutto il ruolo politico-legislativo del Parlamento numerose leggi che rinviano a decreti legislativi od a regolamenti hanno previsto che il Governo prima di adottare questi atti deve acquisire un parere parlamentare sul testo. Il Parlamento da legislatore è diventato organo di consulenza. Questo, come si è detto, è avvenuto anche con la legge delega sul federalismo fiscale, che ha previsto l'obbligo per il Governo di avere sullo schema di decreto legislativo il previo parere della Conferenza Stato-Regioni, delle Commissioni parlamentari competenti in materia finanziaria e di un'apposita Commissione bicamerale, istituita dalla medesima legge per seguire l'attuazione del federalismo fiscale.
Com'è noto, la suddetta Commissione bicamerale ha votato sullo schema di decreto legislativo ottenendo un singolare risultato: 15 voti favorevoli e 15 contrari. Il che dovrebbe significare che il parere è contrario, perché per approvare il parere positivo posto in votazione dal Presidente La Loggia occorrevano la metà più uno dei voti, ossia sedici. Respingere il parere positivo equivale a votare contro lo schema di decreto legislativo. In un collegio non ci possono essere pareggi, come nella partite di calcio. La proposta di deliberazione è approvata o respinta. Quindi la "Bicameralina" ha respinto il testo del parere favorevole, pronunciandosi contro il decreto.
A quel punto il Governo poteva adottare il decreto legislativo sul federalismo municipale?
L'orientamento assolutamente prevalente nella prassi è nella dottrina è che, in assenza di indicazioni contrarie contenute nella legge parlamentare, il parere è obbligatorio, ma non è vincolante (da ultimo c'è il bel volume di Enrico Albanesi, Pareri parlamentari e limiti della legge, Giuffrè, 2010).
Ciò significa che il Governo è tenuto a richiedere il parere (e se non lo fa la legge è costituzionalmente illegittima), ma poi può discostarsi dal parere stesso. Tutto ciò risulta anche dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa. La Corte costituzionale ha detto che il parere previsto dalla legge di delega ha natura obbligatoria ma non vincolante (sin dalla sentenza n. 60 del 1957). Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato i pareri espressi dalle Commissioni parlamentari sugli schemi di atti normativi del Governo sono "pareri in funzione politica di indirizzo del Parlamento al Governo", con la conseguenza che "rientra solo nella responsabilità politica del Governo il tenerne o meno conto" (così Consiglio di Stato, sezione consultiva per gli atti normativi del 17 maggio 2004 e del 25 ottobre 2004). Insomma, il Governo può non tenere conto del parere contrario della Commissione parlamentare, che ha un indubbio peso politico, ma non vincola giuridicamente.
E allora perché il Capo dello Stato ha ritenuto irricevibile lo schema di decreto trasmesso dal Governo e lo ha rispedito al mittente? La risposta sta nella legge sul federalismo fiscale, la quale sancisce l'obbligo del Governo di rendere comunicazioni alle Camere prima di una possibile approvazione definitiva del decreto in difformità dagli orientamenti parlamentari. Quindi prima di trasmettere il testo al Quirinale per l'emanazione il Governo deve comunicare al Parlamento la volontà di agire in difformità dal parere della Bicamerale indicando le eventuali modificazioni che intende apportare al decreto. Se non lo fa la legge è illegittima. Quindi bene ha fatto il Capo dello Stato a rinviare il testo al Governo. Ma poi cosa succederà? Seguendo le considerazioni precedentemente svolte, dopo le comunicazioni al Parlamento, trascorsi trenta giorni, il Governo potrebbe ripresentare il decreto al Presidente della Repubblica per l'emanazione. E la storia dovrebbe finire qui.
Ma le cose potrebbero complicarsi a causa del surriscaldamento del clima politico. Qualcuno magari dirà che il parere della Bicamerale non c'è stato perché l'organismo parlamentare non ha approvato un parere espressamente e motivatamente contrario e che allora tutto dovrebbe ricominciare daccapo. Ma si tratterebbe di un argomento che non convince, perché, come si è visto, respingendo il testo di parere positivo la Commissione si è pronunciata contro il decreto legislativo. Il paradosso di una simile argomentazione è che, in una commissione politicamente spaccata a metà, non potrebbe mai esserci un parere, né positivo né negativo, impedendo comunque al Governo di adottare il decreto legislativo.

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