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Voto su Ruby, colpo agli avversari del premier

La giornata politica di ieri può essere paragonata a un lungo incontro di pugilato: al mattino, il governo ha incassato l'uppercut del pareggio nella bicameralina sul federalismo municipale, che in base al regolamento della medesima equivale - per il vero in spregio alla logica - a una bocciatura del decreto. Lì per lì è apparso tramortito, con le opposizioni che, come al solito, gridavano al ko (Bersani: "Non ci sono le condizioni né giuridiche né politiche per andare avanti: Berlusconi si dimetta") e la Lega che solo dopo un vertice con il presidente del Consiglio ha ritirato la sua precedente richiesta di elezioni immediate. Ma, dopo essersi ricomposta, in serata la maggioranza ha rifilato agli avversari un diretto ancora più micidiale: ha respinto a maggioranza assoluta, cioè con i fatidici 315 voti che la eludevano da tempo, la richiesta della Procura di Milano, in quanto non competente, di perquisire l'ufficio dell'amministratore di Silvio Berlusconi nell'ambito del caso Ruby e rinviato gli atti ai magistrati lombardi.
Nell'esprimersi così, la Camera ha non solo avallato il parere della Giunta per le autorizzazioni a procedere che la competenza per il reato di cui è accusato il premier è - se mai - del Tribunale dei ministri, ma ha implicitamente condiviso anche la tesi del relatore, che egli è vittima di una persecuzione da parte di un gruppo di Pm ostili.
Il giovedì che, nelle speranze dei suoi avversari, doveva segnare la sua fine, si è concluso così con un sostanziale rafforzamento del presidente del Consiglio che, avendo imboccato la strada delle riforme economiche, appare più che mai deciso and andare avanti. Ora, anche il procedimento avviato contro di lui dalla Procura milanese appare meno insidioso.
Fini, venendo ancora una volta meno ai suoi doveri di uomo «super partes», sostiene che la bocciatura del documento sul federalismo ha creato una «situazione senza precedenti». Il giudizio sembra alquanto esagerato. Anzitutto, il pareggio è dovuto soprattutto alla anomala composizione della commissione, che dopo i rimescolii parlamentari delle ultime settimane si è ritrovata con un presidente passato dalla maggioranza all'opposizione e a un eccesso di rappresentanza del Terzo polo.
In secondo luogo, il suo parere, per quanto autorevole, è soltanto consultivo, e per giunta è in contrasto con quello favorevole della commissione Bilancio del Senato. Il governo non compirà perciò nessun atto di arbitrio, nessuna forzatura, se - come è stato annunciato e come è stato concordato con la Lega - sottoporrà egualmente il decreto al voto delle Camere. Dove, stando almeno al risultato di ieri sera (e alle voci che circolano a Montecitorio su un ulteriore rafforzamento del gruppo dei responsabili) non dovrebbe incontrare grandi difficoltà.
Il presidente della «bicameralina» Baldassarri, uno dei senatori passati dal Pdl al Fli, ha cercato di spiegare il suo decisivo «no» al decreto con obiezioni di fatto, in particolare sostenendo che il federalismo voluto dal governo porterebbe a un aumento della pressione fiscale. Se così fosse, avrebbe anche ragione; ma è difficile accettare il concetto che questo sia negli intenti della maggioranza, e in particolare della Lega. Che, come tutte le leggi di questo Paese, il decreto sia migliorabile è possibile: è invece certo che, specie dopo i ritocchi apportati al decreto per andare incontro alle osservazioni più ragionevoli dell'Anci e delle stesse opposizioni, i quindici «no» appaiono perciò più finalizzati a un ennesimo tentativo di spallata che a ottenere un federalismo più equo, a dimostrare la presunta incapacità del governo a governare che a dare un apporto costruttivo alle riforme.

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