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L’Egitto e la posizione degli Stati Uniti

È ancora una "sommossa" o sta già diventando una "rivoluzione"? Si è già trovato al Cairo un collaboratore del dittatore pronto a parafrasare per lui l'annuncio, in quella forma forse apocrifo, di Luigi XVI re di Francia che il suo regime e il suo mondo erano finiti. L'Egitto del gennaio 2011 è, se possibile, ancora più confuso e turbato di Parigi nel luglio 1789. È tutto più grande e, al tempo stesso, più centralizzato. Tutto sembra accadere contemporaneamente, le fasi classiche delle rivoluzioni vivono l'una dentro l'altra invece che l'una contro l'altra. Bruciano i ministeri, si assaltano le Bastiglie del regime, si affollano le piazze, i militari chiamati a reprimere in un posto lo fanno e in un altro no e sono invece applauditi come eroi. Si ignora dove si trovi la famiglia di Mubarak, si sa solo che lui è ancora al Cairo e ha convocato i generali.
La più grande piazza della protesta è sorvolata dai caccia a bassa quota, scandita da slogan che cominciano a contraddirsi. Una svolta pare per un momento decisiva ed è quando compare per parlare alla folla Muhammad El Baradei. Egli presenta la prima proposta positiva per dare lo sbocco alla crisi. È un moderato, un uomo che conosce il
mondo esterno, un premio Nobel per la pace, ha avuto la fiducia dei grandi del pianeta che gli hanno affidato la presidenza della Commissione internazionale di controllo sulle armi nucleari. "Uomo dell'Occidente", con tutte le
conoscenze necessarie a Washington, ma indipendente al punto che è stato lui, nell'imminenza dell'attacco americano all'Irak, a spiegare al mondo che le famose armi nucleari di Saddam Hussein, pretesto ultimo per la guerra, non
esistevano e non erano mai esistite. In compenso ha buoni rapporti con l'amministrazione Obama e vorrebbe essere un interlocutore dell'America senza esserne un proconsole. Moderato sì, ma il suo discorso, la sua proposta è tutt'altro che a metà strada. Contiene una ingiunzione a Mubarak, andarsene perché la caduta del regime è già avvenuta e non è revocabile. "Mubarak deve andarsene oggi". El Baradei "si inchina" davanti al popolo egiziano. "Vi siete ripresi i vostri diritti e indietro non si torna. Vi chiedo solo un altro po'  di pazienza: il Cambiamento verrà in pochi giorni".
Se qualcuno avesse tempo e voglia, in queste giornate roventi per l'Egitto e per tutto il Nord Africa, di ritornare con la memoria alla "madre di tutte le rivoluzioni" in terra di Francia, per El Baradei verrebbe in mente Lafayette; che però non era il preferito dalle folle che aspettavano, comprensibilmente, un Danton. El Baradei si è detto pronto, se glielo chiederanno, ad assumere la presidenza provvisoria dell'Egitto, per garantire la transizione fino a delle elezioni democratiche.
Voleva già candidarsi alla presidenza contro Mubarak o l'uomo che questi avrebbe scelto per suo erede, molto probabilmente il figlio, ma non gli è stato concesso. Adesso è pronto a prendersi cura del Paese, ma come medico, non come chirurgo. È rispettato da isolato. Non ha dietro di sé nessuna delle forze che in questo momento, o nel prossimo avvenire, sembrano contare: non l'apparato di potere di Mubarak, non l'esercito, certamente non i Fratelli Musulmani. Questi ultimi non hanno iniziato la rivolta, che è scoppiata, imprevedibilmente, sul modello tunisino, animata dai giovani, dalle ristrettezze economiche di molti, dalla classe media, dalle nuove, affascinanti "armi" elettroniche. Gli "islamisti" rappresentano il passato, ciò che non cambia e non deve cambiare. Sono l'"opposizione ufficiale", discriminata e perseguitata ma nota. È per liberare dei suoi leaders e dei suoi militanti che la folla ha cominciato ad assalire le carceri. Si riaffaccia, dopo una breve noncurante euforia, il timore che venga fuori prima o poi dai suoi ranghi il Robespierre egiziano. Se lo chiede anche l'America, che apparentemente trova difficile mettere in piedi una "politica per l'Egitto" di fronte a cambiamenti così rapidi ed evidentemente imprevisti. Le dichiarazioni della Clinton paiono ripetere soprattutto formule invecchiate, un colpo al cerchio e uno alla botte, viva la rivoluzione pacifica ma non cambi troppe cose troppo in fretta. A Washington riemergono perfino i nostalgici di George W. Bush e delle sue "guerre per la democrazia": senza l'attacco all'Irak - di quasi un decennio fa - non ci sarebbe l'ondata democratica in Egitto e nel Maghreb. Per fortuna Barack Obama gode tuttora di buona parte della popolarità che si acquisì proprio al Cairo con la sua visita appena eletto e la sua enunciazione di propositi per un "rapporto nuovo fra gli Stati Uniti e l'Islam". Se lo ricordano, perlomeno, i cento o i mille Baradei del Cairo. Ma le migliaia di dimostranti, i milioni del profondo Egitto rurale? La tensione resta, cresce anzi. Mubarak forse prepara le valigie ma intanto si consulta con i generali. Per prudenza, intanto, hanno chiuso le Piramidi.

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