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L’epocale svolta italiana

Al di là di come finirà il referendum a Mirafiori il "caso Fiat" rappresenterà una svolta nelle relazioni industriali del nostro paese. E va dato atto che sarà tutto merito di un signore italo-canadese che ha dimostrato coraggio e determinazione nella volontà di innovare. Parliamo,ovviamente,di Sergio Marchionne, oggi nel mirino non solo della Fiom, ma anche degli estremisti di tutti i colori politici. Un nome che riesce a dividere anche la sinistra moderata del Pd (Chiamparino, Fassino, lo stesso D'Alema sono favorevoli,insieme a tutta la componente cattolica dell'ex Margherita), mentre la sinistra di Vendola e quella di Di Pietro preferisce,anche per calcoli elettorali,stare sulle barricate.
Ma il problema non è solo politico. Oggi, come hanno capito da tempo Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, è necessario intervenire per cambiare profondamente il sistema della rappresentanza sindacale e, in generale, le relazioni industriali. La questione chiave,che Marchionne va ripetendo da un po' di tempo, è quella della "governabilità del sistema" finalizzata all'aumento della produttività dell'apparato produttivo italiano che rimane basso,non solo rispetto alla Cina,all'India o ai paesi dell'est (Polonia, Serbia,Romania, ecc.), ma confrontandoci con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, persino la Spagna. In particolare, i grandi impianti nel nostro paese "soffrono" di un sistema industriale obsoleto, supergarantista per i lavoratori, ma estremamente rigido, poco flessibile,che privilegia gli interessi corporativi, anche i piccoli privilegi, ma che non tiene presenti le esigenze di superare la bassa produttività e la sfida competitiva nel mercato globale che diventa sempre più aggressiva,anche nella stessa Europa.
Ecco perché il senatore Pietro Ichino (pd) e, insieme a lui, tanti giuslavoratisti sostengono che,contrariamente a quanto afferma la Fiom e i falchi della Cgil,è necessario mettere mano a una riforma organica del diritto del lavoro che affronti la flessibilità interna ed esterna alle grandi imprese,che si devono confrontare non più sul mercato nazionale, ma mondiale. È necessario dunque cambiare lo "Statuto dei lavoratori" (voluto dopo l'autunno caldo del 1969 dal ministro del Lavoro Giacomo Brodolini,socialista,è fatto approvare dal successore Carlo Donat Cattin,sinistra dc). Quello "Statuto",che si prefiggeva di tutelare i lavoratori, sia delle grandi che delle piccole imprese, è in gran parte superato perché le innovazioni tecnologiche, il mercato dell'occupazione e la globalizzazione hanno profondamente cambiato lo "scenario".
Gli accordi di Pomigliano e Mirafiori (contestati da Fiom ed estremisti di sinistra) sono solo il primo passo .Infatti,entrambe queste intese, dai contenuti modesti, hanno assunto però un valore simbolico della volontà (della Fiat) di un sostanziale cambiamento. La decisione di uscire dalla Confindustria sembra aprire la strada a una sorta di nuovo pluralismo sindacale e non solo imprenditoriale. Infatti l'abbandono o comunque il forte ridimensionamento del valore del contratto nazionale (che potrebbe essere sostituito o integrato fortemente da accordi aziendali), potrebbe dare il "via" a una fase inedita nella storia del nostro movimento sindacale: la diffusione della contrattazione aziendale potrebbe far nascere numerosi sindacati di impresa e/o di settore che indebolirebbero le organizzazioni storiche (Cgil,Cisl e Uil). Tutto questo sarebbe un bene o un male? È difficile fare pronostici,ma questa tendenza sembra inarrestabile.

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