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L'assoluto bisogno di una crescita forte

Uno striscione tra i tanti sollevati dai giovani nei cortei di questi giorni ci ha colpito. Quello in cui c’era scritto: «Il futuro del passato era un’altra cosa». Gli idioti e i criminali che rompono vetrine e assaltano palazzi hanno torto. Meritano una repressione severa. Ma è reale il disagio di molti giovani che non vedono prospettive. Per loro il futuro si disperde in una nebulosa senza colori. I ventenni di trenta o quaranta anni fa potevano desiderare. Anche sognare. Lavori, carriere e salti nella vita sociale erano nell’ordine delle cose. Potevano temere che non avrebbero fatto quel che volevano. Ma c’era la certezza che qualcosa avrebbero fatto. Oggi è diffuso l’incubo di essere costretti a far nulla. O troppo poco per sbarcare il lunario. Qui è il passaggio epocale di cui dobbiamo parlare oggi. Quando si chiude un anno dominato dall’incertezza. Perché sono incerti gli sviluppi della politica tra un governo che cerca maggioranze più ampie e una opposizione che non esprime alternative. Sono incerti i livelli di un’economia che aspetta una ripresa più forte di quella che si intravede. In questo contesto crescono le contraddizioni tra politica, economia, società e istituzioni. Dovrebbero dialogare per trovare intese. Invece crescono separazioni e rotture. Non si va alla questione di fondo destinata a dominare il secolo in cui viviamo. Il Novecento è stato un secolo di crescita dell’Occidente, di aspettative crescenti. Noi europei abbiamo visto aumentare benessere, prosperità e diritti. Questo ventunesimo si presenta come il secolo in cui tutto per tutti entra in discussione.
In questo contesto dobbiamo parlare della nostra Italia. I catastrofismi sono inutili. Si dice che dalla crisi siamo colpiti più degli altri. Che le cose vanno peggio che altrove. Non è vero: vanno male come altrove. Con differenze non sempre negative. Le nostre banche non sono fallite come perfino è successo nei paesi anglosassoni. Il tasso di disoccupazione prodotto dalla grande crisi è da noi più basso che altrove. La società ha tenuto. La posizione economica delle famiglie ha retto (ma la cinghia è sempre più stretta, come documenta l'Istat). Abbiamo un deficit pubblico scandaloso e indecente («Il terzo del mondo senza essere la terza economia del mondo», come ricorda spesso Giulio Tremonti). Ma siamo ai primi posti per risparmio privato. Si dice poi che è in carica un governo lontano dalla gente e dai problemi, che non governa la crisi. Non è del tutto vero neppure questo. Riforme importanti sono state condotte in porto o bene avviate: dall'ultima sull'università al federalismo, dalla pubblica amministrazione alla riforma del processo civile. Si è poi riusciti a tenere in ordine i conti pubblici e a dare impulso al contrasto della criminalità organizzata. Quanto alla questione sociale, i deboli sono stati difesi con la deroga della cassa integrazione, la social card, l'estensione degli assegni familiari e i sussidi alle famiglie. Sul terremoto dell'Aquila affiorano adesso polemiche. Ma la risposta all'emergenza meritò le lodi dei grandi leader del mondo. Sui rifiuti di Napoli ora si ironizza. Ma le prime mosse del premier li fecero sparire dalle strade. Poi sono intervenute le inefficienze locali... Certo sono molte le promesse non mantenute, gli errori, le omissioni. Ma ha ragione Sergio Romano, osservatore cui nessuno può attribuire simpatie governative: «...Se mi guardo attorno e confronto la politica italiana con quella di altri paesi dell'Unione Europea, non mi sembra che l'Italia, quando la partita si gioca sulle cose fatte e da fare, sia rimasta indietro» (Corriere della Sera, 3 novembre 2010).
No, non servono i catastrofismi. Che peraltro oscurano la questione di fondo. Che in poche parole è questa: cresciamo poco, cresciamo male. Meno degli altri in Occidente che a loro volta non stanno bene. Emma Marcegaglia la chiama malattia permanente del Paese. Ha ragione. I fattori di questa malattia sono noti. Troppe tasse sulle imprese. Burocrazia asfissiante e talora corrotta. Giustizia civile al collasso. Sistema giudiziario lento che può decidere tutto e il suo contrario. Ricerca scadente. Organizzazione del lavoro troppo rigida nelle imprese private e negli uffici pubblici. Spesa statale straripante perdippiù gonfiata da costi della politica intollerabilmente elevati. Dimensioni delle industrie troppo piccole. Di ciò si parla nei convegni e nei documenti dei partiti, è vero. Ma le riforme necessarie non scaldano il cuore della politica. Non appaiono al centro delle agende del governo. Non sono oggetto di proposte chiare da parte dell'opposizione. Del resto la crescita lenta è malattia permanente da quindici anni almeno. Periodo nel quale alla guida del Paese si sono alternate coalizioni di centrodestra e di centrosinistra. Ma senza crescita non c'è nulla. Né progressi nel lavoro, né maggiori redditi. Né desideri possibili. Né sogni. C'è l'arrancare nella mediocrità. Il galleggiamento. Il vivacchiare. Ma il discorso su questo profilo è complesso. Perché la politica è indietro. Ha colpe e ritardi innegabili. Dovrebbe guidare i processi di novità. Proporre il senso di nuovi obiettivi epocali. Di una «missione» come si ama dire. Invece si consuma in risse e guerre di tutti contro tutti. Ma la politica non può agire da sola. Ha bisogno di sollecitazioni forti dalla società civile, dagli intellettuali, dai sindacati, dalle imprese e dalle professioni. Ma non sempre, riconosciamolo, si hanno spinte adeguate.
L'anno si chiude con due novità incoraggianti. Da un lato la riforma dell'università che introduce nel sistema, sia pure timidamente, il principio che deve avere di più chi merita di più. Dall'altro l'accordo tra parte del sindacato (Cisl e Uil) e la Fiat di Marchionne che consiste nel prevedere salari maggiori per chi produce di più. Introducendo pure elementi di regolazione dei diritti sindacali. Nello spirito di una linea coraggiosamente affermata da Raffaele Bonanni, leader della Cisl, nel suo ultimo libro «Il tempo della semina»: «Si sciopera quando è necessario, non si usa questo prezioso strumento di tutela del lavoro per altre finalità, né si sostituisce la lotta a viso aperto con improprie forme di blocco della produzione» (pagina 66).
Torniamo da qui alla scritta nello striscione di cui dicevamo sopra. Un futuro potrà di nuovo delinearsi come nel passato quanto più si ripensano comportamenti e culture. Viviamo ancora nel tempo in cui gli europei consumano più di quanto non producono. Crescono meno perché nello spazio del mondo irrompono nuove masse di uomini e nuovi territori che producono di più lavorando di più e guadagnando di meno. Dentro il dramma della disoccupazione giovanile non c'è solo una crescita ancora lenta dopo fasi di recessione. C'è pure l'ostinata tendenza allo stipendio pubblico con poco lavoro, la diserzione da attività ritenute faticose, il rifiuto della bottega artigiana in cerca di personale, il basso spirito di intraprendenza, l'attitudine diffusa alla dipendenza (per non parlare delle attività economiche che resistono solo per il lavoro degli immigrati). Non ha torto Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, quando dice che tanti giovani disoccupati pagano il conto «di cattivi maestri e qualche volta di cattivi genitori che li hanno condotti a competenze che non sono richieste dal mercato del lavoro». Il futuro potrà riapparire chiaro e roseo come nel passato. Ma tutti noi, giovani e non, dobbiamo essere pronti a svolte e revisioni nei modi e comportamenti diffusi nel presente. Questo è il punto oggi.
Discorso tanto più fondato nella nostra Sicilia. Dove decine di migliaia di giovani sono stati corrotti dall'idea di un posto facile nelle amministrazioni pubbliche. E costretti a un precariato lungo, quanto umiliante, con prospettive oggi sempre più strette. E si tratta di eserciti talora o spesso poco utilizzati, o non utilizzati affatto, dalle mansioni incerte e dalle funzioni misteriose. Si impongono svolte radicali da parte della politica e in primo luogo dei governi. Le abbiamo sollecitate con scarso successo. Le solleciteremo. Ma una riflessione seria sarebbe opportuna anche da quanti (giovani e non) nel precariato hanno logorato anni importanti della loro vita. Per rivendicare chiarezza nel ruolo e nelle funzioni. Per essere davvero utili e offrire il lavoro che serve anche affrontando faticose riconversioni. Ci aspettano mesi difficili. Le risorse sono decrescenti. Le regioni del Sud, e tra queste la nostra, hanno speso male quelle di cui hanno goduto. Abbiamo sempre meno titoli per chiederne di nuove. Certo abbiamo le nostre ragioni da far valere. Ma potremo affermarle solo correggendo i nostri torti. Buon anno.

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