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Economia siciliana a picco, che aspettiamo a voltare pagina?

Non è un fine anno allegro; né le prospettive sembrano migliori. C'è una crisi mondiale che, pur con forti scarti tra un Paese e l'altro, continua a mordere; c'è un persistente rischio di tracollo per alcune grandi banche internazionali. Nel dibattito che ha accompagnato la convulsa fase politica di questi giorni, è stato più volte paventato il pericolo che l'Italia possa subire la medesima sorte della Grecia e dell'Irlanda. Se in molti possono avvertire il rischio generico di una crisi finanziaria internazionale, in pochi forse ne misurano i possibili effetti.
Ebbene l'Italia oggi "vanta" un debito pubblico di quasi 1.900 miliardi di euro. Se il nostro Paese dovesse malauguratamente subire la stessa sorte dei Paesi europei in difficoltà, si vedrebbe costretto a pagare di più i propri titoli pubblici, per agevolarne il collocamento presso i grandi investitori. Arrivare ad esempio a tassi nell'ordine dell'8% come Grecia ed Irlanda, significherebbe sborsare ogni anno qualche cosa come 85 miliardi di euro in più. Quasi 1.500 euro a cranio! Ecco quali sono i rischi che corriamo. In acque così agitate la fragile barchetta della Sicilia galleggia a stento ed ogni onda potrebbe essere quella cruciale.
Nell'inchiesta di Laura Anello si forma un collage fotografico delle nostre "sette piaghe": crisi estesa dell'imprese, delle ditte artigiane, delle costruzioni e dell'agricoltura, perdita di posti di lavoro, fondi europei ancora al palo, giovani che emigrano, precariato …. E' un quadro a tinte fosche cui non giovano l'ormai probabile ricorso all'esercizio provvisorio, né il bradiforme andamento della spesa dei fondi europei. Come da manuale, l'ambito nel quale si registrano invece le migliori performance è quello dei precari. In un confuso scenario, nel quale non si sono ancora affacciati tutti i protagonisti, quasi 30 mila persone hanno in qualche maniera iniziato il loro ultimo attraversamento del deserto, e puntano all'oasi della stabilizzazione. Sottrarre tante famiglie al nodo scorsoio del rinnovo periodico, è certamente un fatto positivo. Ci sono però due questioni che restano puntualmente nell'ombra del dibattito politico e sulle quali invece bisognerebbe realisticamente cominciare a confrontarsi.
Intanto bisogna mandare definitivamente in soffitta l'idea stessa di "ammortizzatore sociale", troppo spesso ed inopportunamente invocata per giustificare l'ampiezza del fenomeno del precariato in Sicilia. Il perché è presto detto. I precari dovrebbero essere circa 150 mila, mentre i siciliani iscritti alle liste ufficiali del collocamento sono almeno 250 mila. A questi peraltro vanno aggiunte (da dati ufficiali Istat) altre 510 mila unità, talmente demotivate da non cercare neanche un lavoro. In tutto quindi 760 mila disoccupati! Insomma, se per ogni precario si contano altri quattro disoccupati, il concetto di ammortizzatore sociale non regge più. Bisogna inventarsi qualche cosa di diverso e dire con realismo ai siciliani che non ci sono le risorse per impegnare tante unità nei ranghi pubblici. C'è poi una seconda questione.
Nella drammaticità di tante famiglie a rischio, passa puntualmente in secondo piano l'impiego che si fa di tanto personale pubblico. E qui cade l'asino. La Sicilia vive infatti la paradossale situazione di avere, da un lato, il più numeroso esercito di dipendenti comunque a carico del bilancio pubblico e di dovere subire, dall'altro, il più basso livello di servizi pubblici d'Italia. Troppo spesso questo Giornale ha fornito ingenerosi dati di confronto con il resto del Paese, per tornare ancora sull'argomento. Eppure il problema è tutto qui. La Sicilia è l'ultima regione italiana per livello di spesa delle famiglie; è la prima regione italiana per numero di disoccupati ufficiali. Negli ultimi tre anni le famiglie siciliane hanno tagliato i loro consumi per 2,1 miliardi di euro. Che altro deve accadere, per voltare pagina?

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