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Obama e la rivolta dei liberali

In Italia si pubblicano gli elenchi dei "traditori". Adesso anche in America, con la differenza che su una sponda dell'Atlantico ce ne sono decine e sull'altra un solo imputato: Barack Obama. Sulla "lista nera" dei conservatori egli c'è sempre stato, adesso è finito anche in quella dei "liberali". Ormai è quasi ufficiale: il partito cerca un candidato alternativo a Barack Obama. Che lo sloggi, insomma, dalla Casa Bianca. Non ci sarebbe da meravigliarsi: il 2010 sta per finire, nel 2012 si torna a votare per la Casa Bianca, con le "primarie" inaugurali già in gennaio, gli aspiranti hanno solo un anno di tempo per prepararsi. Quello che non è normale è che ad avere più fretta nella caccia al candidato non è il Partito Repubblicano, nominalmente all'opposizione, bensì il Partito Democratico, che dovrebbe essere il partito di Obama. Contro il quale è ormai ufficialmente
scoppiata la rivolta dei "liberali". Nel gergo politico americano, essi sono l'ala sinistra del Partito Democratico, che è anche la sua base tradizionale e la "corrente" cui ha sempre fatto capo l'attuale presidente. Egli era "compagno di banco" di coloro che adesso sollecitano e si apprestano a guidare la contestazione e la sfida. Il malcontento ribolliva da molti mesi, ma fra le righe. Adesso è uscito allo scoperto.
A far traboccare il vaso della delusione e dell'ira dei democratici vecchio stile, è stato il "compromesso" faticosamente raggiunto in extremis fra l'inquilino della Casa Bianca e l'opposizione repubblicana sulla legge finanziaria. Un do ut des in cui Obama pare aver dato molto e ottenuto poco. Lo scambio più importante, o almeno più visibile, avverrà, se il Congresso non lo farà saltare all'ultimo momento, sulle tasse e sui sussidi di disoccupazione.
Questi ultimi sono prorogati di un anno, le prime mantenute basse per due anni. Per tutti, anche per i "milionari", ultima trincea dietro cui avevano tentato di ripararsi i "liberali". Sono in molti a definire questo compromesso "patto leonino" e a far osservare che in fin dei conti i quattro anni alla Casa Bianca di Obama avranno visto la conferma della politica economica di Bush.
Al presidente ora ne dicono di tutti i colori, da sinistra stavolta e senza che gli attacchi da destra si siano interrotti. Dopo essere stato selvaggiamente attaccato come "socialista" e addirittura "marxista", Obama si vede piovere ora addosso l'accusa di "servo del capitale". In verità egli ne è stato semmai l'ostaggio: se avesse insistito nel chiedere che i "ricchi" pagassero più tasse, i disoccupati avrebbero perduto sussidi, risultato inaccettabile in un momento di disoccupazione molto alta. Egli lo ha ammesso quasi apertamente. Anzi ha fatto suo il paragone con gli ostaggi, ricordando che i "ricattatori" avevano il coltello dalla parte del manico. E ha risposto alle rampogne della sinistra definendola "ipocrita" e affetta da un "purismo" semi-infantile. All'ammutinamento egli ha risposto insomma con una sfida, aprendo ufficialmente il secondo fronte della sua guerra, quello a sinistra, dopo aver teso a lungo e invano un ramoscello d'ulivo al "nemico" di destra. La polemica è destinata a infuriare, soprattutto perché nelle prossime settimane si compirà il trapasso dei poteri alla Camera, dai democratici eletti sull'onda di Obama 2008 ai repubblicani, beneficiari dell'ondata anti Obama del 2010.
La verità è che in questo momento il presidente non poteva fare altro. Non poteva dar retta a chi l'incitava a rispondere con gli stessi toni alla strategia della "terra bruciata" che gran parte dei repubblicani aveva inaugurato contro di lui fin dal primo giorno. Non poteva perché ai partiti in Parlamento è lecito combattersi senza scrupoli, ma agli inquilini della Casa Bianca no, perché essi devono pensare prima di tutto agli interessi del Paese.
Questo è il motivo nobile della sua quasi resa. Ce n'è un altro, più interessante ma mantenuto in sordina: la vera contropartita alle sue concessioni non sarebbe soltanto l'estensione degli assegni di disoccupazione ma la ratifica del trattato "antinucleare" con la Russia che è una delle grandi priorità di Obama. Privo del controllo del Senato e nell'imminenza di perdere quello della Camera, Obama avrebbe deciso di lasciare "sopravvivere" l'interesse a lunga scadenza della sicurezza degli Stati Uniti e del pianeta. I repubblicani continuano a ritenere che l'unica garanzia seria sia la superiorità militare, però potrebbero chiudere un occhio avendo incassato un copioso indennizzo sul tema che più loro stava a cuore. E non dispiace loro affatto di vedere aprirsi una "guerra civile" nel partito concorrente. È un calcolo che fanno da due anni, un conto che finora è tornato. I conti di Obama no.

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