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A chi servirebbe una crisi?

Se l'Italia fosse quel "Paese normale" che un tempo auspicava D'Alema, non solo il Senato ma anche la Camera voterebbero la fiducia al governo Berlusconi.
Nessuno, nel dibattito che si è svolto nelle due camere, ha infatti fornito una risposta sensata alla domanda-chiave posta dal premier: «A chi serve una crisi al buio?». Non al Paese, che in un momento difficile ha bisogno di stabilità e non si aspetta certo che i suoi tanti problemi possano essere risolti da un impossibile governo di transizione e tanto meno da una nuova, e sicuramente feroce, campagna elettorale. Non al Partito Democratico, che è stato relegato al margine del dibattito, è in piena crisi strutturale e non è certo pronto per nuove elezioni, ma ciò nonostante farà del suo meglio per fare cadere il governo. Ma neppure a Gianfranco Fini, l'uomo che con la sua fuoruscita dal Pdl e la fondazione del Fli è il responsabile di questa crisi ma rischia di uscirne con le ossa rotte comunque vada a finire la votazione.
In caso di caduta del governo, per evitare di andare subito al voto dovrebbe infatti o rimangiarsi l'impegno di non allearsi mai con la sinistra o cercare di ricucire in qualche modo con Berlusconi, cui domenica da Lucia Annunziata ha rivolto l'ultimo insulto: «Non vuole stare a Palazzo Chigi per governare, ma per sottrarsi ai suoi processi».
Ma il vero disastro per lui, forse addirittura la fine politica, sarebbe se il governo passasse indenne l'esame di Montecitorio: significherebbe che il suo Fli non è più determinante per la maggioranza, che tutti i suoi calcoli erano sbagliati, che per una questione personale ha aperto un vulnus nel centrodestra senza avere un accettabile progetto politico alternativo. Tra lui e Berlusconi, credo che sia stato proprio il presidente della Camera a passare la notte più agitata.
Ancora ieri sera era impossibile dire se l'appello del premier al senso della responsabilità dei parlamentari eletti con il Pdl e poi trasmigrati verso altre formazioni sortirà il suo effetto. Il suo discorso è stato moderato, ragionevole e pieno di aperture, sua pure per ora solo verbali: ha promesso che, una volta ottenuta la fiducia, perseguirà un nuovo patto di legislatura per attuare le riforme e aggiustare il programma, è disponibile ad allargare la maggioranza a tutti coloro che si riconoscono nel Partito popolare europeo (leggi Udc), a rinnovare la compagine di governo e ad adottare quei provvedimenti di rilancio dell'economia compatibili con le esigenze di bilancio.
Ha dato anche una impressione di serenità, come fosse sicuro di superare la tempesta. Oggettivamente, chi, tra i suoi avversari, è in grado di fare oggi al Paese un'offerta altrettanto rassicurante, visto che una maggioranza alternativa - con buona pace di Bersani & Co - sarebbe non solo la negazione del voto popolare, ma anche impossibile da mettere insieme?
Ma Casini e Fini, pur accettando in linea di massima l'idea di un nuovo governo di centro-destra, hanno replicato con l'ennesima richiesta di dimissioni prima del voto alla Camera: una richiesta incomprensibile per l'uomo della strada e tutta interna al Palazzo, nel senso che serviva soprattutto a salvare la faccia dei due e permettergli di andare a raccontare, che, dopo tutto, erano riusciti a piegare Berlusconi ai loro voleri. Un no del premier era inevitabile.
Il brutto di questa crisi è che, se anche il governo ottenesse, per qualche voto, la doppia fiducia, non saremmo fuori dal tunnel. Bossi ha già sentenziato che con una maggioranza risicata non si governa, quindi lo spettro delle elezioni non sarebbe spazzato via. Ma almeno sarebbe un primo passo verso l'uscita, anche se ancora non si può dire in quale direzione.

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