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Il Nobel “dissidente” e l’ira cinese

Ci deve essere qualche saporito proverbio cinese adattabile alla circostanza, ma non ne conosco e non posso allora che ricorrere a un modo di dire americano: "If You can't beat them, join them", "Se non puoi batterli, mettiti con loro". È la decisione che ha preso il governo cinese una volta esaurite le sue indignate proteste per l'assegnazione, da parte del Parlamento norvegese, del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, un dissidente che si trova in carcere, condannato a undici anni non per avere compiuto gesti terroristici o istigato alla violenza, ma semplicemente per avere scritto un "manifesto" in favore dei dissidenti della sua patria, includendovi anche le vittime della piazza Tienanmen.
Pechino ha espresso ripetutamente la propria "indignazione", denunciando una "farsa anticinese" e una manovra per "mantenere l'egemonia dell'Occidente con la Cina come suo vassallo"; ha compiuto qualche gesto di simbolica rappresaglia nei confronti della Norvegia, soprattutto ha esercitato pressioni diplomatiche in tutte le capitali del mondo per ottenere che non proprio da tutte partissero, come è costume, delegazioni d'onore per la cerimonia di consegna del Nobel.
Naturalmente ha anche tenuto in cella Liu Xiaobo e proibito a sua moglie o a qualunque familiare di andare in Norvegia a ritirare il premio per lui. Qualche risultato lo hanno ottenuto: una ventina di Paesi diserteranno la festa del Nobel per la pace: quasi tutti del Terzo Mondo e retti da regimi di dubbia democrazia ma includendo anche, sfortunatamente, la Russia, un paio di regimi filoamericani nel Medio Oriente e, stranamente, le Filippine - gli affari sono affari - il cui presidente Benigno Aquino, è discendente di quella Corazon Aquino, eroina della resistenza democratica alla dittatura di Ferdinand Marcos. Il resto del mondo civile c'è e il boicottaggio, dunque, non è riuscito.
La Cina, allora, ha tirato fuori, proprio nelle ore della vigilia, la sua arma segreta: niente di meno che Confucio. Un "premio Confucio per la pace" è stato creato e immediatamente ha insignito il suo primo vincitore: Lien Chan. Che è cinese, però non è cittadino della grande Cina governata da Pechino bensì della Cina piccola e contrapposta, quasi nemica, Taiwan. Ne è, anzi, vicepresidente ed è noto per essere stato lo statista di più alto rango ad avere visitato la Cina fondata da Mao partendo dall'ultimo rifugio di Chang Kai Shek. Egli è stato prescelto da una giuria fra diversi altri candidati, tutti più noti di lui fuori dalla Cina e "pescati" non a caso. Due erano americani, Bill Gates (premiato per i suoi "sforzi di riavvicinare i ricchi e i poveri") e Jimmy Carter ("che fa tanto per la pace anche adesso che è così vecchio"). C'erano poi l'eroe nazionale sudafricano Nelson Mandela (anche lui "reduce" dalla cerimonia di Oslo), il presidente palestinese Mahmud Abbas e uno dei due Panchen Lama, quello appoggiato da Pechino in contrasto con quello scelto dal Dalai Lama. Lien Chan, invece, si batte da anni per migliorare i rapporti fra Taiwan e il Partito comunista cinese.
Deve essere stata una deliberazione molto rapida, perché ha colto di sorpresa un po' tutti, a cominciare dal vincitore. Lien Chan lo ha saputo dai giornali. Fino a quel momento non immaginava di essere candidato anche perché ignorava l'esistenza del premio. Non a torto, dal momento che il premio non esisteva prima di essergli attribuito.
Sapeva però chi era Confucio, che è tornato di gran moda in Cina dopo che la sua memoria millenaria era stata perseguitata, vilipesa, cancellata e torturata durante gli anni di Mao. La riabilitazione di Confucio è da tempo ufficiale e già egli dà il nome all'istituto ufficiale di cultura fondato a Pechino sul modello del "Goethe Institut" della Repubblica Federale Tedesca. Il cinese più venerato di tutti i tempi accanto al più famoso tedesco. Confucio però batte largamente Goethe: è noto da due millenni e mezzo ed era piuttosto conservatore. Al punto che, duemilacinquecento anni fa, raccomandava di tornare "alle usanze del buon tempo antico".

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