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Mafia, è tempo di rieducare

«Svincolarsi dalle mafie» non è possibile soltanto in forza dell'intervento repressivo-giudiziario. Non c'è dubbio che negli ultimi anni l'azione repressiva dello Stato contro la criminalità organizzata abbia raggiunto risultati eccellenti. Tuttavia non è riuscita a sradicare anche le condizioni che concorrono a formare l'agire mafioso ed il sistema di potere che su questo si fonda.
È sempre più urgente quindi edificare e porre in pratica una reale pedagogia antimafia. Una proposta di modifica legislativa coerente con tale obiettivo consiste nell'estendere ad alcuni istituti processuali la possibilità per il soggetto (minorenne o condannato per reati non superiori a tre anni di reclusione) di intraprendere un percorso di rieducazione, mediante il suo coinvolgimento nella gestione dei beni confiscati alla mafia, con la prestazione di lavoro manuale o con altre modalità di partecipazione. All'esito positivo del periodo di rieducazione il reato verrebbe dichiarato estinto.
In tal modo si conseguirebbe il risultato di innescare un processo virtuoso attraverso un autentico percorso di rieducazione (specie per i minorenni) svolto a contatto con beni che hanno assunto una forte valenza simbolica. L'estinzione del reato verrebbe inoltre ricondotta non alla pura e semplice presa d'atto della mancata commissione di ulteriori reati durante il periodo di osservazione ma alla positiva dimostrazione di comportamenti attivi e qualificanti, rivelatori di un percorso rieducativo. Un ulteriore effetto positivo di tale misura consisterebbe nel favorire la partecipazione sociale alla gestione dei beni confiscati alla mafia, che spesso rimangono incolti od inutilizzati.
Infine, per riflettere sulle grandi potenzialità rieducative del lavoro prestato sui beni confiscati, può essere utile raccontare una storia vera. È la storia di F., un ragazzino di undici anni, che frequenta la scuola dell'obbligo e che ama molto giocare a calcio. Solo apparentemente però F. è un normale ragazzino, perché è stato concepito con un complesso procedimento di inseminazione artificiale a causa della restrizione carceraria di suo padre, che sta scontando diverse pene, compreso l'ergastolo. Sin da quando era bambino, F. ha potuto vedere suo padre, sottoposto al regime dell'art. 41 bis, una volta al mese, attraverso uno spesso vetro divisorio e ne ha ascoltato la voce mediante un citofono. Gli unici contatti fisici che ha avuto con suo padre si sono esauriti nell'abbraccio finale dopo il colloquio, alla presenza di un agente penitenziario.
F. non ha mai potuto incontrare il nonno, del quale porta il nome e che è morto in carcere, nè tutti gli zii paterni, perché anche loro da anni stanno scontando l'ergastolo, e per gli stessi motivi non ha mai potuto incontrare l'unico fratello della madre, né tanti zii di questa.
Da qualche anno F. non può neppure incontrare la madre, da quando è stata arrestata e condannata a dieci anni di carcere, perché è stato dimostrato che, quando con lui si recava a trovare il padre, ne raccoglieva gli ordini che poi portava fuori, anche a pericolosi latitanti, per gestire gli affari della famiglia mafiosa. Si è pure scoperto che i genitori, durante i pochi istanti in cui F. abbracciava il padre, ne approfittavano per scambiarsi missive contenenti ordini e direttive, i cosiddetti pizzini.
Oggi F. vive con la nonna paterna e gli zii materni, frequenta la scuola che ha sede su un bene confiscato al nonno, va a giocare a calcio in un impianto sportivo confiscato allo zio e qualche volta frequenta la palestra ubicata su un immobile confiscato ad un cugino dello zio ed alla cui titolare ogni mese veniva estorta una somma di denaro con la quale la madre comprava i biglietti aerei per entrambi per andare a trovare ogni mese il padre.
La storia di F. è certamente un caso limite, emblematica dei traumi affettivi e psicologici e del disagio esistenziale che molti minori sono costretti a vivere non per loro scelta ma a causa delle altrui scelte sbagliate e che, se lasciati soli, rischiano di sviluppare nel tempo una personalità fortemente orientata ad introiettare i valori dell'agire mafioso; proprio per questo credo che non si debba cedere alla rassegnazione lasciando da solo F. e tutti i ragazzi come lui, e che lo Stato e tutta la collettività abbiano il preciso dovere di strapparli ad un destino che l'etica mafiosa concepisce come ineluttabile, riempiendo di valori positivi il tempo che ancora li separa dall'adolescenza e dalla maggiore età.
È utopico pensare, anzi sperare, che attraverso l'uso dei beni confiscati alla mafia, i tanti F., anziché candidarsi ad incrementare le prossime fila della criminalità organizzata, possano recuperare l'infanzia loro negata?
* Magistrato
presidente della Fondazione Paolo Borsellino


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