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Italia in Afghanistan, partecipazione diretta alla Grande Strategia

Afghanistan: fuoco e sdegno, lutto e calcoli, dignità e strategia. In poche ore una guerra ormai decennale ha esibito ancora una volta, più che mai, la sua infinita, inumana complessità, le sue umanissime conseguenze, la sua capacità di tensione senza pari, forse, nei conflitti degli ultimi due secoli. È accaduto in poche ore: un agguato che è costato all'Italia cobelligerante il tributo di sangue forse più severo e pone i nostri governanti e la nazione intera di fronte a scelte militari di un tipo cui abbiamo perso l'abitudine dai giorni della Seconda Guerra Mondiale; un drammatico showdown fra governi obbligati ad essere alleati; un compromesso fra Washington e Kabul senza precedenti anche in questa vicenda incomparabilmente tortuosa; una escalation e un "mercato", un ennesimo confronto fra una concezione strategica che non ha alternative e i suoi limiti cui non si vede un rimedio. Un nuovo "tetto" di intensità bellica e la prospettiva di una ulteriore capacità di compromesso.
In poche ore. L'imboscata contro gli alpini della Julia ricorda guerre antiche, non tutte nostre. Ci incappano quasi ogni giorno gli americani, ci si sono consumate le ambizioni imperiali sovietiche, vi è stata umiliata, un secolo e mezzo fa, la potenza imperiale britannica al suo apice. Talebani è il nuovo nome del nemico in una storia in cui molto cambia ma nulla di definitivo accade. Il piano strategico concepito dal più famoso generale americano del ventunesimo secolo, David Petraeus (l'uomo che ha "salvato" Bush in Irak e si sforza di "salvare" Obama in Afghanistan), obbliga gli alleati ad impiegare tutta la loro potenza di fuoco nel cuore, adesso, del territorio controllato dal nemico e obbliga questo nemico ad usare la sola arma a sua disposizione: cercare di tagliare i rifornimenti di una armata invincibile sul campo.
Di qui l'attacco ai convogli dei rifornimenti, in primo luogo petroliferi. Di nuovo obbligato è il corollario strategico americano: dalla guerra alla controguerriglia, all'uso degli aerei senza pilota, a bombardamenti che inevitabilmente coinvolgono i civili e accrescono il potenziale di odio su cui i talebani puntano e contano. E geograficamente a latere ma strategicamente al centro, il coinvolgimento del Pakistan, che si difende dallo stesso nemico ma che è riluttante a impegnarsi in modo troppo "visibile" a fianco dell'America. Di qui la sospensione, decretata dopo che bombe americane erano cadute su unità pachistane, della facoltà di transito in Pakistan per i convogli così necessari nella strategia di Petraeus e, poche ore fa, la sua revoca. Il transito è di nuovo lecito ma, in una forma o nell'altra, a pagamento: Islamabad mette in prima linea i suoi doganieri, Washington paga il pedaggio, come in tempo di pace, per poter continuare la guerra.
Ma stavolta in prima linea ci siamo anche noi, dopo un episodio che ci spinge, comprensibilmente, perlomeno a mostrare di poter fare di più in prima persona per difenderci: scortando i nostri convogli terrestri con degli aerei armati, con o senza pilota, con un'incrementata potenza di fuoco e, di conseguenza, con accresciuta responsabilità. Dunque un ruolo più diretto in cui siano integrate, oltre ai rischi, i modi di partecipazione alla Grande Strategia. È una scelta che in pratica non ha alternative. Attenervisi non deciderà evidentemente le sorti del conflitto ma sottrarvisi (come hanno fatto o si apprestano a fare altri Paesi europei) non porterebbe a un chiarimento ma ad una ulteriore confusione sui nostri motivi e sul nostro ruolo nel momento in cui la chiarezza è strettamente legata alla credibilità e proprio nel momento in cui ce n'è più bisogno. Non è facile spiegare agli italiani non in armi la dinamica di una guerra in cui il nemico attacca mentre fugge, l'alleato diventa più vulnerabile mentre avanza in lande in cui gli indigeni sopravvivono attraverso il contrabbando della droga, il "socio" porta al parossismo la danza delle sue contraddizioni. Eppure alternative, va ripetuto, non ve ne sono. Obama e Petraeus sono i primi a sapere che una "vittoria totale" non è un obiettivo raggiungibile, che una sconfitta rimane impensabile e che una guerra a fondo è l'unico modo per cercare di raggiungere un "pareggio". Che non potrà mai essere una soluzione definitiva.

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