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In Afghanistan libertà e democrazia pagate col sangue

Paghiamo il prezzo del sangue, doloroso, col pensiero fisso ai nostri figli e fratelli che compiono il loro dovere fra le pietraie dell’Afghanistan. Portiamo il peso del lutto - sono ormai 34 i caduti in quella terra - e pensiamo che sempre la libertà e la democrazia hanno preteso sacrifici umani. Sull’onda del dolore si rinnovano vecchie polemiche. Perché siamo in Afghanistan? Perché abbiamo mandato il fior fiore delle nostre forze armate a migliaia di chilometri dalla Patria? Le risposte a queste domande sono semplici, anche se qualcuno fa finta di non sentire. Siamo lì perché la democrazia vera non si accontenta delle mere petizioni di principio, ma richiede impegno e sacrifici, la storia non fa sconti.
Siamo in Afghanistan perché consapevolmente impegnati contro il terrorismo internazionale, che si appoggia su regimi e formazioni arcaici e sanguinari, ispirati a un integralismo che non ha nulla di religioso e ha tanto di feroce. I nostri soldati soffrono e talvolta muoiono perché l’Italia è inserita in una rete qualificante di trattati e vincoli internazionali, ai quali non possiamo sottrarci pena l’eclissi dalla scena degli obblighi e delle simpatie internazionali. I nostri soldati sono lì non alla ricerca di fama guerresca o di compensi territoriali, ma per aiutare le donne, i bambini e gli anziani di quel Paese a sfuggire a una condizione di sofferenza e di bisogno senza speranza.
C’è una frangia minoritaria del mondo politico italiano che ogni volta si butta sulle salme dei caduti per invocare a gran voce il ritiro dei nostri militari, in nome della vita e della pace. Quale vita, quale pace? Moltissimi cittadini (parola grossa) dell’Afghanistan vivono schiacciati da bisogni e tabù antichi in balia spesso di poteri tribali e di dirigenze paraterroristiche che impongono regole disumane e angherie ancestrali.
È facile quando si annunciano o si commettono lapidazioni, decapitazioni e fucilazioni, schierarsi contro la barbarie e invocare il rispetto dei diritti umani. Farlo magari in una piazza della civile Italia o sottoscrivendo manifesti che talebani e terroristi non tengono in nessun conto. I soldati italiani cercano di aiutare gli afghani in maniera concreta, si sforzano di favorire la nascita di una democrazia, pronti a soccorrere le popolazioni civili, ma sempre col dito sul grilletto perché i nemici della civiltà sono tanti e ben armati. Del resto, se la situazione non fosse stata così critica, anziché i reparti della Nato sarebbero andati in Afghanistan soltanto formazioni della protezione civile.
I nostri fratelli in armi compiono una missione altamente umanitaria, aiutano un Paese lontano e tormentato a imboccare la strada della democrazia e della pace dopo un periodo di guerre e di sofferenze infinite. I militari italiani tengono alto il nome di una media potenza regionale, ma soprattutto si spendono perché l’Afghanistan non sia travolto nel vortice dei suoi mali antichi. Ed è per questo che addestrano militari e poliziotti, perché quel Paese possa procedere da solo, senza la gruccia eterna dell’appoggio internazionale. Nel 2011 il lavoro dovrebbe essere completato e solo quando gli organi di sicurezza afghani saranno in grado di garantire una vita meno violenta nella loro terra, i nostri soldati potranno tornare. Con la riconoscenza di tutti gli italiani che godono della democrazia, ne parlano e ne scrivono senza correre alcun rischio. E con la commozione di tutti coloro che comprendono quanto profondo e vitale sia il legame fra il popolo italiano e i suoi silenziosi uomini con le stellette.

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