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Israele, Palestina e l'Iran che incombe

Barack Obama, stavolta, aveva davvero un asso nella manica. Anzi due, e li ha calati lo stesso giorno, in un "colpo" diplomatico abbastanza sensazionale anche se con tutte le riserve che sono sempre d'obbligo nel Medio Oriente. Come minimo, la causa del dialogo e della pace ha guadagnato un anno, sui due scacchieri: la Palestina e la minaccia nucleare iraniana. Israele e le autorità palestinesi riprenderanno tra pochi giorni il dialogo diretto da molto tempo interrotto. L'annuncio ufficiale ha la forma di un invito da parte del "Quartetto dei mediatori" (gli Stati Uniti, la Russia, l'Unione europea e l'Onu) a Netanyahu e a Mahmoud Abbas per il 2 settembre a Washington, ma il lavoro decisivo è stato condotto dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato, tanto è vero che l'annuncio ufficiale pare sia riservato a Hillary Clinton, un appuntamento con una scadenza e reso possibile dai risultati di un'altra febbrile trattativa tra Stati Uniti e Israele. Il governo americano è riuscito a convincere il governo dello Stato ebraico che la minaccia della "atomica degli ayatollah" non è poi così urgente. Il programma ambizioso di Ahmadinejad è indietro e quel ritardo consente al resto del mondo di guadagnare tempo e di devolvere una parte dell'attenzione al problema palestinese. Si è guadagnato almeno un anno e un anno allora è lo "spazio" per la diplomazia. I due problemi sono stati affrontati in parallelo e questa volta con successo, in un contesto tutt'altro che facile e che ha visto il team di Obama impegnarsi a fondo nonostante la "concorrenza" dei gravi problemi interni, economici ed elettorali. I rapporti tra il presidente Usa e il premier di Gerusalemme sono stati intensi ma non facili, solcati anzi, soprattutto al debutto contemporaneo dei due statisti espressione di spinte interne contraddittorie, dalla percezione americana della intransigenza dell'interlocutore e, da parte israeliana, da sospetti di eccessiva "attenzione" di Obama al mondo arabo-islamico.
L'impressione è che l'accordo raggiunto sulla Palestina sia soprattutto il frutto dei colloqui sul progetto nucleare iraniano. L'America e lo Stato ebraico sono da sempre concordi nel valutare con allarme le ambizioni nucleari di Teheran, soprattutto da quando Ahmadinejad ha preso il timone e comune è la decisione di fare di tutto per bloccarlo. Divergono spesso, invece, la strategia e le valutazioni sul "terreno". Israele era e resta decisa a una azione militare preventiva in caso di emergenza, da condurre se possibile con la partecipazione americana e Washington non ha mai minacciato un vero veto. Ma le rivelazioni raccolte dai servizi segreti dei due Paesi, e dunque le valutazioni, sono state a lungo divergenti. Gli israeliani hanno pensato e sostenuto fino a poco tempo fa che l'Iran potesse portare a termine la costruzione della bomba entro pochi mesi, gli americani vedono tempi più lunghi e dunque maggiori possibilità di prevenire la prova di forza. Negli ultimi tempi, evidentemente, Washington è riuscita a convincere Gerusalemme circa la tabella di marcia: gli iraniani sono in ritardo con i loro programmi e perlomeno per un anno non sono in grado di completarli. I motivi sono l'insufficienza degli impianti, soprattutto di quello principale in Natanz. Sono in funzione solo metà delle "centrifughe" che dovrebbero fornire l'uranio arricchito. Si verificano continuamente guasti, le sanzioni internazionali rendono difficilissima l'acquisizione di materiali e tecnologie necessarie e hanno successo le operazioni di sabotaggio alle centrifughe condotte da molto tempo.
Tutte queste indicazioni, evidentemente corroborate da prove, sembrano avere convinto Israele della fondata correttezza delle valutazioni americane. C'è insomma più tempo di quanto Gerusalemme credesse: almeno un anno, che può essere impiegato nel continuo "contenimento" sul piano militare-industriale ma anche in una iniziativa politica in Palestina che serva a disinnescare uno dei motivi principali delle tensioni nel Medio Oriente e quindi anche nella corsa agli armamenti.
Una occasione che non va sprecata, una "finestra" anch'essa di un anno. Dal 2 settembre Netanyahu e la sua controparte palestinese si concentreranno sui problemi e sulle prospettive di una sistemazione. I punti cruciali sono sempre quelli: le frontiere di un nuovo Stato palestinese, lo statuto politico di Gerusalemme, le garanzie per Israele e il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi. Le trattative si sono finora sempre arenate su due punti: il "ritorno" degli arabi, che altererebbe l'essenza stessa dello Stato ebraico e la prosecuzione da parte di Israele degli insediamenti al di fuori delle frontiere del 1967. Su questo terreno, forse, ci sono poche novità concrete, di nuovo c'è un maggiore "respiro" e la volontà di cercare di sfruttare al massimo questa ennesima occasione.
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