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Si rischia che la Fiat lasci l'Italia

Trentacinque anni fa la sentenza di un pretore portò alla chiusura di Motta e Alemagna. Il giudice, in un'Italia dominata dall'egemonia del sindacato, ordinò che gli stagionali fossero reintegrati con contratti a tempo indeterminato. Le due aziende, che lavoravano a pieno ritmo solo nell'ultima parte dell'anno per realizzare i panettoni di Natale, dichiararono forfait.
Erano l'orgoglio di Milano. Oggi sopravvivono come marchi di multinazionali straniere. L'episodio torna in mente dopo la decisione del giudice del lavoro che ha ordinato il reintegro dei tre operai della Fiat di Melfi licenziati il 13 e 14 luglio scorsi per un presunto "sabotaggio della produzione". Contro il provvedimento nei confronti di Antonio Lamorte, Giovanni Barozzino (delegati della Fiom) e Marco Pignatelli (iscritto Fiom) aveva fatto ricorso la Cgil per comportamento antisindacale. Secondo l'azienda, durante lo sciopero del 6 luglio, i tre avevano bloccato alcuni carrelli che trasportavano componenti provocando il fermo della catena di montaggio. Per confutare le accuse la Fiom ha citato oltre 40 testimoni.
La sentenza favorevole ha ridato fiato alla Cgil che dopo la sconfitta nel referendum di Pomigliano risultava sempre più isolata. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini che ora chiede di riaprire "un confronto alla pari". Intenzione anche lodevole. C'è da capire su quali basi. Perchè finora la disponibilità della Cgil al cambiamento è apparsa veramente scarsa. Ha difeso cocciutamente il contratto nazionale e l'attuale sistema delle relazioni industriali basate sulla netta contrapposizione tra capitale e lavoro. Assolutamente indifferente alle esigenze della proprietà che ha sempre di più carattere internazionale (proprio ieri è stata comunicata la partecipazione con una quota del 2% della Banca Centrale di Norvegia). Del tutto sorda alle pressioni della globalizzazione. Sordi all'innovazione come lo furono trentacinque anni fa i sindacati che difesero gli stagionali di Motta e Alemagna. Erano convinti di rendere la loro esistenza meno precaria. Li condannarono alla disoccupazione insieme a tutti gli altri dipendenti. Ridotto all'osso il tema è tutto qui. Bisogna capire se la Cgil è disponibile a ragionare in termini di maggior efficienza e produttività. Oppure se vuole solo difendere l'esistente. Nel primo caso è immaginabile una ripresa convinta della trattativa anche da parte della Fiat. Altrimenti la strada è quella nota. L'azienda, progressivamente, abbandonerà l'Italia. Tanto più che negli Stati Uniti, che non sono un Paese del Terzo Mondo, i sindacati hanno fatto ponti d'oro a Marchionne. Ora aspettano il 2011. Con la quotazione in Borsa incasseranno, con gli interessi, i soldi che il fondo pensione dei dipendenti Chrysler ha investito insieme a Fiat nel salvataggio del gruppo. In Italia, invece, il piano d'investimenti da 20 miliardi annunciato da Marchionne è stato accolto con una raffica di scioperi e con i ricorsi al giudice del lavoro. La differenza è tutta qui. Poi ognuno farà come crede.

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