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La debole struttura dell'industria siciliana

Nel mese di giugno la produzione industriale italiana ha fatto un balzo in avanti; nell'ultimo anno l'impennata è stata superiore all'8%. Non ci sono altre informazioni sulle diverse aree del Paese e non è quindi ancora possibile sapere, almeno ufficialmente, come stia andando per le industrie siciliane. Tuttavia si può tentare qualche valutazione, per via induttiva. Cominciamo con una notizia positiva; forse l'unica. Nell'ultimo anno le industrie siciliane hanno aumentato il numero dei propri dipendenti di circa ottomila unità. Non è un dato da poco, specie se si considera che nello stesso periodo le sole «costruzioni» hanno perso 27 mila posti di lavoro e che, nel complesso delle attività economiche siciliane, i posti persi sono stati addirittura 38 mila. Ma, come dicevamo, le buone notizie finiscono qui. L'industria siciliana resta strutturalmente debole; dà lavoro ad appena 128 mila persone. Ogni cento occupati, in Sicilia ci sono appena nove addetti all'industria. Nel resto del Paese ce ne sono 21. La differenza appare incolmabile. Qualche utile indicazione sull'andamento delle industrie siciliane si può trarre dal recente report degli uffici siciliani della Banca d'Italia. Tutti i principali indicatori, sottolinea la Banca d'Italia, hanno mostrato un sensibile peggioramento. Anche le più recenti indagini svolte tra marzo e aprile del 2010, confermano il quadro negativo. Il numero di occupati delle imprese si è ridotto e la dinamica degli investimenti è risultata ancora negativa. Rispetto al 2007, anno precedente l'inizio della fase recessiva, si è avuto un calo dei margini di profitto delle imprese del 36 per cento! È la dimostrazione lampante di quanta poca attenzione e di quali modesti risultati sia stata portatrice la politica industriale siciliana in oltre 60 anni di Autonomia.
Chiusasi, con ignominia, la stagione della «regione imprenditrice», l'industria privata siciliana non è mai riuscita ad uscire dalla dimensione di un pulviscolo di imprese piccole e piccolissime, qua e là punteggiato da alcuni importanti insediamenti industriali, con livelli occupazionali comunque mai significativi; un esempio per tutti sono le industrie petrolchimiche. Oggi sarebbe un alibi attribuire l'ulteriore debacle dell'industria siciliana soltanto alla recente crisi internazionale. I nodi sono ben più complessi ed antichi.
In Sicilia la spesa pubblica resta il motore di un'economia nella quale la componente privata gioca un ruolo del tutto marginale. Negli ultimi due anni i rubinetti pubblici hanno fatto scorrere soltanto qualche goccia. E che dire del modo in cui si spende? Quasi il 90% del bilancio regionale è ingessato nella spesa sanitaria, nel pagamento dei dipendenti in servizio ed in pensione, nei forestali, nei precari, nella formazione professionale e nel pagamento dei debiti; senza considerare alcune «partite» straordinarie come la liquidazione dell'Eas, il sistema degli Ato e le partecipate regionali e comunali. Del resto i «dipendenti» pubblici in Sicilia (regionali, comunali e provinciali) sono almeno 140 mila, cui vanno sommate altre 7 mila unità delle società a totale o parziale partecipazione regionale.
Per le industrie private i problemi non finiscono qui. Mancano le infrastrutture e le procedure burocratiche sono più asfissianti che altrove. La crisi di liquidità, poi, è impressionante. Quando il cliente non paga, anche i fornitori non incassano. I crediti bancari di difficile esigibilità sono così sensibilmente aumentati. Scendono in Sicilia persino i consumi alimentari, il più sensibile degli indicatori socio-economici ed il più preoccupante quando comincia a flettere. Soltanto tra un anno sapremo ufficialmente se l'industria siciliana avrà agganciato o meno il treno della ripresa. È quasi certo di no. Che vogliamo fare? Aspettiamo la «prova» definitiva per prendere provvedimenti, o ci accontentiamo magari degli «indizi» che già abbiamo?

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