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Dell'Utri, una sentenza da rispettare

Le sentenze si accettano e si rispettano. Tanto più se ancora ci sono altri gradi di giudizio da celebrare. Non fa eccezione la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ieri ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora toccherà alla Cassazione dire la parola definitiva. Tre brevi riflessioni si possono comunque già fare.


1)La sentenza su Dell’Utri riguarda solo i fatti precedenti al 1992. Vuol dire che toglie di mezzo il gran polverone degli ultimi mesi che legava la nascita di Forza Italia e della Seconda Repubblica alle bombe stragiste del ’93.  I giudici di Palermo hanno negato l’esistenza di questo legame assolvendo pienamente Dell’Utri «perché il fatto non sussiste». Proprio per questo la condanna a sette anni, quattro in meno rispetto alla richiesta dell’accusa. Le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza non sono state ritenute attendibili. Inutile dire che, da questo punto di vista, la sentenza di Palermo lancia certamente una luce di serenità su tutto il quadro politico. Ci aspettiamo che cessino le raffiche di parole avvelenate che, negli ultimi mesi avevano reso torbida l'atmosfera all'interno dei Palazzi romani. Qualcuno era arrivato a parlare di Cosa Nostra come della madrina di battesimo della Seconda Repubblica. La sentenza di Palermo certifica, casomai ve ne fosse bisogno, che la democrazia italiana non è figlia delle stragi. Sembra banale dirlo, ma qualcuno, in questi mesi, aveva sostenuto il contrario nel tentativo di delegittimare la maggioranza e il governo.


2) I giudici d'appello hanno condannato Marcello Dell'Utri. Gli hanno ridotto la pena ma lo hanno comunque ritenuto colpevole. Ovviamente questo fatto non può essere trascurato. È vero che, fino alla sentenza passata in giudicato, esiste la presunzione d'innocenza. Tuttavia due gradi di giudizio che, sostanzialmente, dicono la stessa cosa sono rilevanti. A Dell'Utri vengono attribuiti rapporti poco chiari con la mafia. Non dice, la sentenza, se questi collegamenti sono organici oppure utilizzati in via strumentale per proteggere le imprese di cui il senatore era manager di primissimo piano. Certo i tempi erano molto diversi dagli attuali e non sempre era facile distinguere la parte sana della società civile da quella inquinata. Tuttavia il problema aperto dalla sentenza esiste.


3) Il processo Dell'Utri non è ancora finito. Questo significa che serve ancora chiarire. Invece non è di nessuna utilità inveire. Questo perché è facile immaginare che le polemiche non si placheranno. La politica attaccherà i giudici. I magistrati risponderanno per le rime alimentando una rissa senza fine. È chiaro che, in questa maniera non si fanno certo gli interessi della democrazia. Esattamente il contrario. I cittadini vengono allontanati dalle istituzioni. Invece bisogna cominciare a riconoscere che la sentenza di ieri, come la precedente, è stata emessa da giudici terzi, indipendenti e rispettabili.


Chi ritiene che la sentenza debba essere corretta può chiederlo nei modi che la legge consente. E ancora, per l’appunto, bisogna attendere un ulteriore livello di giudizio prima che il verdetto diventi definitivo. La cosa importante è che tutto si muova sul serio nel quadro delle norme esistenti e della Costituzione. Smettiamola di tifare e parteggiare. Lasciamo lavorare serenamente i giudici. Sia sottratto questo processo agli interesssi di parte che lo sospingono verso percorsi impropri. Il Paese vuole verità e serenità. Tutti debbono sentirsi impegnati a chiarire. Non ad inveire. Il fuooco del clamore finisce col diffondere fumo e buio. In questo modo una democrazia non può far luce, come è giusto che sia, su deviazioni e delitti che possono inquinare la politica e le istituzioni.

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