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Gli Usa alla ricerca della pace

L’America parla con molte voci, in questi giorni ed ore, sui più importanti problemi internazionali. Barack Obama, dopo un periodo relativamente lungo di relativo silenzio (forse una «pausa di riflessione» nella misura in cui gli è consentito in un momento di così febbrili avvenimenti e scelte) tiene forse ora a riassumere le proprie riflessioni e a chiarirle. Lo ha fatto in queste ore su suolo canadese nel doppio vertice degli Otto e dei Venti, proponendo una strategia planetaria alternativa per l'uscita dalla recessione in contrasto con la ricetta su cui sembrano avere raggiunto un accordo di massima i principali Paesi europei, opponendo alla loro priorità, suggerita o imposta soprattutto dai tedeschi, alle garanzie contro l'inflazione, un rilancio della crescita come medicina a lungo termine. Il dibattito è acceso pur nella ricerca di un accordo difficile quanto necessario. Contemporaneamente però Obama si preoccupa che la ripresa auspicata non contenga i germi dei mali che hanno provocato il crack di due anni fa le cui conseguenze il pianeta intero ancora paga. E ha raccolto, per la prima volta da quando è presidente, l'unanimità del Congresso su un progetto che dovrebbe tagliare le unghie alla speculazione selvaggia frutto della degenerazione delle liberalizzazioni e deregolamentazioni introdotte negli scorsi decenni. Ma altri eventi incombono. Lo scacchiere internazionale non è fatto, neanche adesso, di soli malanni e ricette economiche: il mondo è minacciato anche da guerre, guerre sono in corso e l'America è direttamente impegnata in almeno due di esse e dedita con il massimo sforzo a cercare di prevenirne una terza.



Fra i conflitti quello in Afghanistan ha dominato negli ultimi giorni in maniera assai evidente e imponendo alla Casa Bianca scelte immediate, come il licenziamento del comandante in capo delle truppe Usa e della Nato, provocato dalle stravaganti dichiarazioni del generale McChrystal ma anche dal deterioramento della situazione politica e militare. Ora il governo americano lo ammette esplicitamente: mentre Obama è a Toronto, è rimasto a Washington il direttore della Cia, Leon Panetta, che in una lunga intervista alla rete televisiva Abc ha risposto alle domande più scottanti riguardo i diversi scacchieri e dell'Afghanistan ha detto apertamente che «questa guerra si è rivelata molto più difficile e molto più lunga di quanto ci aspettassimo». È un «assestamento» necessario ma che non ci si attendeva così esplicito. Poi Panetta ha preso per le corna un problema ancora più difficile e minaccioso, la temuta guerra di domani, quella che con ogni probabilità scoppierebbe se l'Iran riuscisse davvero, nonostante gli sforzi diplomatici e le sanzioni economiche rafforzate dal voto del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e proclamate subito dopo dagli Stati Uniti e dall'Europa, a procurarsi l'arma nucleare. E il capo della Cia, che evidentemente parlava a nome del presidente, ha ammesso che questa possibilità è reale, in tempi relativamente brevi.  La cernita delle ultime informazioni raccolte dall'intelligence americana e dalla «lettura» delle dichiarazioni del governo di Teheran, conduce a stabilire addirittura degli «appuntamenti»: entro un anno gli iraniani potranno completare la costruzione della loro prima atomica e in altri dodici mesi fornirsi degli strumenti per renderla operativa, inclusi missili e rampe di lancio.  Due anni in tutto, dunque. Una valutazione non molto dissimile da quella avanzata negli ultimi tempi e ripetutamente dal governo israeliano. Un allarme accresciuto, l'ammissione di una realtà ma anche un appello estremo alla ragionevolezza. Realisticamente l'America omette di rivolgere allo Stato ebraico uno dei consueti appelli alla «pazienza»: non si aspetta e non pretende di essere ascoltata in ogni caso. Rivela anzi, nelle parole del capo della Cia, di sentirsi indirettamente sottoposta a una sorta di ultimatum da parte degli eventi. Il Paese, il regime da cui Gerusalemme si sente minacciata stabiliscono un «termine» essi stessi, con le azioni e con le parole. Israele lo «gira» a sua volta agli Stati Uniti: concede loro - è in pratica la formula impiegata da Panetta - due anni per portare avanti con il massimo impegno la sua alternativa di pace. Ventiquattro mesi sono una promessa ma anche un ultimatum, all'America più che dall'America. Dei confini al tempo della ragionevolezza. E della ragione.

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