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Maturità, la parola d'ordine è severità

Cominciano oggi, con la prova di italiano, gli esami di Stato. Si svolgeranno in un clima che il ministro Gelmini ha voluto fosse «caratterizzato da una maggiore severità», come dimostra del resto la scelta di richiedere, per l'ammissione, la sufficienza in tutte le discipline. E in effetti i dati (non ancora definitivi) sembrano indicare un aumento dei non ammessi dal 5,5% dell'anno scorso al 6,1%. Di per sé non si tratta di un incremento significativo, ma vale come indicatore di un trend, che si evidenzia anche nell'aumento dei bocciati nelle classi intermedie. Come valutare tutto questo?
La risposta non può essere univoca. Per un verso, non c'è dubbio che la scuola italiana negli ultimi anni, aveva praticamente rinunziato a qualunque forma di selezione culturale, lasciando che gli alunni meno studiosi accumulassero debiti formativi senza saldarli e senza che il loro percorso scolastico ne risentisse minimamente. Una linea suicida sia sul piano della preparazione nelle discipline sia su quello semplicemente educativo. In questo modo erano i migliori, messi sullo stesso piano dei fannulloni, a venire demotivati.
Già il ministro Fioroni aveva inaugurato l'inversione di questa tendenza, con la decisione di non permettere l'accesso alla classe successiva a chi non avesse colmato le lacune dell'anno precedente. La Gelmini ha avuto il merito di continuare e accentuare questa linea di rigore - ma forse sarebbe meglio parlare semplicemente di serietà -, introducendo anche un giusto riferimento alla correttezza dei comportamenti, che si era del tutto perduto al tempo di Luigi Berlinguer con la netta scissione tra profitto scolastico e condotta. In realtà la scuola non è solo volta all'acquisizione di competenze e abilità, come qualcuno vorrebbe, ma dovrebbe educare, dovrebbe, cioè, accompagnare un bambino e poi un adolescente nel complesso percorso verso la scoperta e l'elaborazione della propria identità. Ovvio, dunque, che la valutazione di questo percorso non si riduca all'aspetto meramente intellettuale, ma comporti l'attenzione verso altri aspetti della personalità.
Da questo punto di vista, che si siano posti dei paletti per riportare in primo piano la necessità di uno studio serio e di un comportamento civile non può che trovarci d'accordo con le scelte della Gelmini e in disaccordo con quanti l'hanno aspramente criticata.
Solo che il ministro ha più volte dato l'impressione di considerare compiuta, con queste misure, la «missione serietà», parlando di «svolta epocale» e attribuendosi il merito di avere reso la scuola finalmente quello che dovrebbe essere. Ora, questo è un grave equivoco. Perché la missione si potrà dire compiuta non quando si riuscirà a bocciare tutti gli alunni che non meritano la sufficienza, nel profitto o nella condotta, ma quando non ci saranno più alunni in queste condizioni. La repressione è solo un primo passo, necessario, ma del tutto insufficiente, specie se si dovesse scambiarlo per l'ultimo.
Il problema è di creare le condizioni perché la scuola svolga il suo compito di istruzione e di educazione in modo da costituire una reale alternativa ad una società dove da diversi anni, ormai, a livello sia pubblico che privato, si assiste a un imbarbarimento culturale ed etico di cui forse non si era visto l'eguale nella storia della nostra Repubblica. E non è facile. Essa deve subire la concorrenza di spettacoli televisivi che, dal «Grande Fratello», all'«Isola dei Famosi», dai programmi della De Filippi ai talk show sguaiati e violenti, fanno largamente rimpiangere il tempo, ormai lontano, in cui in prima serata assistevamo ai drammi di Pirandello e agli sceneggiati tratti da grandi opere letterarie come Il Mulino del Po o I promessi sposi. L'avvento della TV commerciale, con la logica dell'audience in vista dei profitti pubblicitari, e la pronta adeguazione a questa logica da parte della televisione pubblica, hanno favorito, se non creato, una cultura diffusa in cui il pudore delle anime, prima ancora che quello dei corpi, la sensibilità verso i grandi valori, la delicatezza del linguaggio e il rispetto degli altri, sono diventati ricordi remoti. Oggi sono molte le ragazze che sognano di diventare, «da grandi», veline o cubiste. E i ragazzi a cui importa soltanto di fare soldi e sesso.
La scuola dovrebbe essere il vivaio di giovani che, assimilando la grande tradizione culturale e spirituale dell'Occidente, sono messi in grado di trovare in essa le motivazioni per vivere il presente in modo diverso, e di costruire un futuro degno dell'uomo. I fatti dicono che non ci riesce. E non ci riesce anche perché la grande maggioranza dei docenti sono delusi e frustrati nella loro dignità di uomini e donne di cultura, per una serie di motivi strutturali, legati al basso stipendio, ma anche alla circostanza che il loro lavoro, a causa di una politica di tagli, è molto peggiorato nella qualità (classi troppo numerose, cattedre ritagliate in modo sempre mutevole e senza adeguata continuità didattica, etc.). Tutto ciò va nella direzione opposta alle intenzioni espresse dal ministro.
Ribaltare la situazione sarebbe - questo sì - una svolta epocale. Essere più esigenti con gli studenti è giusto. Ma, se si indebolisce sempre di più l'impegno del governo nei confronti della scuola - e impegno vuol dire investimenti, innanzi tutto per riqualificare la funzione docente - , questa severità sarà solo un modo per scaricare sui ragazzi la responsabilità di un degrado che non dipende solo da loro. E anche gli esami di Stato - per selettivi che siano - risulteranno uno stanco rito, celebrato per sancire la sconfitta della scuola di fronte alle derive della società, piuttosto che per preparare il suo rinnovamento.

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