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Il primo sciopero tollerato da Pechino

I 1.900 operai che da dieci giorni paralizzano la fabbrica di trasmissioni della Honda a Fushan non se ne rendono forse conto, ma rischiano di trovare un posto nei libri di storia: il loro è infatti il primo sciopero in uno stabilimento delle grandi multinazionali che si sono stabilite in Cina per sfruttare il basso costo della manodopera e che finora erano in genere riuscite a mantenere i salari a un livello di poco superiore ai 200 dollari mensili; il primo massiccio sciopero non solo tollerato dalle autorità di Pechino, ma riportato anche con una certa simpatia dai media ufficiali; infine, uno sciopero che, se si concludesse con l'aumento richiesto del 65% e trovasse di conseguenza imitatori in altri stabilimenti, potrebbe determinare entro breve tempo un aumento generalizzato dei costi di produzione e di conseguenza un rincaro dei prodotti cinesi sui mercati mondiali.
Qualcuno, precorrendo i tempi, sta attribuendo a questa massiccia astensione dal lavoro, che vede protagonisti in grande maggioranza giovani intorno alla ventina (cioè appena nati durante i fatti di Tienanmen) anche una valenza politica, ipotizzando per loro un ruolo simile a quello che gli operai dei cantieri di Danzica ebbero nel logoramento del dominio comunista in Europa orientale.
Per ora, si direbbe che le rivendicazioni delle maestranze di Fushan, che hanno già costretto la Honda a chiudere tutte le sue catene di montaggio in territorio cinese, siano esclusivamente economico-normative e che i giovani operai siano disposti a tornare al lavoro non appena avranno ottenuto soddisfazione. Ma che essi pretendano o no anche più libertà e più diritti politici ha una importanza relativa, perché il probabile successo della loro agitazione - in cui il sindacato ufficiale, che di solito veglia soprattutto sulla disciplina nelle fabbriche, ha assunto un inedito ruolo di mediatore - inciderà comunque sulle relazioni industriali dell'intero Paese.
L'atteggiamento tollerante di Pechino nei confronti degli scioperanti (forse influenzato anche dal fatto che i padroni dello stabilimento sono i "cattivi" giapponesi) sarebbe infatti dovuto all'intenzione del partito di consentire ai lavoratori delle grandi fabbriche, fin qui sfruttati con il suo imprimatur, di tenere non solo il passo con l'inflazione ma anche di aumentarne il potere di acquisto e stimolare così una domanda interna che, nel prossimo decennio, dovrà compensare un inevitabile calo delle esportazioni. I cinesi stanno infatti prendendo atto che, a causa dell'indebolimento dell'Euro e dei problemi interni americani, non potranno più contare nella misura attuale sui mercati esteri e stanno anche prendendo atto che le multinazionali hanno cominciato a trasferire le produzioni a bassa tecnologia verso il Vietnam, la Cambogia e il Bangladesh. A questo rallentamento degli investimenti stranieri sta contribuendo una crescente scarsità di manodopera qualificata, dovuta in parte alla politica del figlio unico praticata da trent'anni. Insomma, molti nodi si stanno presentando, e lo sciopero di Fushan sembra destinato a fungere da pettine.

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