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Sbagliato il ritiro immediato dall'Afghanistan

Altri morti, altri feriti, altre polemiche. Ultimamente da noi si era parlato poco della missione afghana, nonostante la prospettiva di rinforzarla tra un mese con altri mille soldati, ma era inevitabile che, quando due dei dieci morti che il contingente Nato subisce ogni settimana sono italiani, tornassero di attualità le solite domande. A che cosa servono questi sacrifici? Perché dobbiamo restare in Afghanistan quando altri membri della Nato, come Olanda e Canada, stanno già pianificando il loro ritiro? A che punto è la nuova campagna americana per la pacificazione del Paese? Per fortuna, questa volta le forze politiche hanno dato prova di notevole misura. Solo l’estrema sinistra ha ripreso il ritornello del ritiro immediato, Pd e Idv si sono limitati a chiedere che il governo riferisca in Parlamento. E Umberto Bossi ha subito rimbeccato il suo ministro Calderoli che avanzava qualche dubbio sulla utilità della nostra presenza laggiù. Quanto a Silvio Berlusconi, è stato categorico: «La missione rimane fondamentale per la nostra sicurezza e per il futuro del popolo afgano». In realtà, questo nuovo attentato alle nostre forze cade in un momento particolarmente delicato per il conflitto. La grande offensiva anglo-americana nella provincia di Helmand (che aveva provocato anche l'incidente con Emergency), non ha dato tutti i frutti sperati, nel senso che i Talebani non sono stati spazzati via e continuano ad intimidire la popolazione. La seconda grande operazione programmata dal generale McChrystal per riportare sotto controllo governativo Kandahar, da sempre culla dei ribelli, è stata un po' ridimensionata durante il recente viaggio del presidente Karzai negli Stati Uniti, che ha portato a una svolta nei rapporti tra Kabul e Washington, molto tesi per le dure accuse di corruzione che l'amministrazione Obama aveva mosso al presidente e per certi clamorosi "smarcamenti" del leader afgano dai suoi alleati. Dopo questa visita, gli americani sembrano di nuovo convinti che, in una situazione politica sempre più frammentata, non esistano alternative a Karzai e che perciò bisogna continuare a sostenerlo. A questo fine, Washington ha fatto sapere che l'inizio del ritiro americano da Kabul, che Obama aveva promesso per il luglio dell'anno venturo, sarà «prudente e dipendente dalle condizioni sul campo» (cioè potrebbe anche essere rinviato, con ovvie ricadute anche sulle decisioni degli altri Paesi della Nato). Karzai, dal canto suo, si è impegnato a condurre la Jirga - o grande assemblea degli anziani - convocata per giugno in modo da ridurre l'ostilità di molte tribù alla continuata presenza delle truppe straniere. Ancora non è chiaro se la nuova strategia americana, di lanciare meno attacchi al Talebani e proteggere di più la popolazione, con la speranza neppure troppo recondita di indurre i ribelli meno ideologizzati a deporre le armi, funzioni o meno.  Un effetto - per noi indesiderato - del tentativo di ristabilire l'autorità governativa nel Sud è stato quello di indurre il nocciolo duro della guerriglia a trasferire la sua attività in altre province, tra cui quelle affidate al controllo degli italiani. La letale bomba di Bala Murghab è probabilmente una conseguenza di questo sviluppo.
Anche in vista dell'estate, è probabile che l'attività nemica a Herat e Farah si intensificherà, con ulteriori, inevitabili, rischi per le nostre truppe. Ma questo non può e non deve cambiare la nostra posizione: siamo impegnati in questa impresa, non è neppure concepibile darla vinta ai fondamentalisti finchè saranno strettamente legati ad Al Qaeda e, se vuole rafforzare la sua credibilità internazionale e proteggersi dall'onda lunga del terrorismo, l'Italia deve fare la sua parte fino in fondo.

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