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Napolitano strizza l'occhio al federalismo

Una certa idea dell'Italia unita attraversa la nostra storia come un fiume carsico, a volte s'inabissa, a volte riappare con forza e ribolle con inaspettata energia. Perché l'Italia c'è, c'era anche prima del 17 marzo 1861, giorno in cui fu proclamata la nascita del regno di Vittorio Emanuele II, sovrano «per grazia di Dio e volontà della Nazione». In tanti hanno, abbiamo, provato a sminuire il Risorgimento, lamentando l'assenza popolare, ma nessuno oggi può negare che l'unità d'Italia sia un valore imprescindibile, il più grande risultato politico ottenuto dalle nostre società peninsulari e isolane dopo l'invasione francese del 1498 che segnò il nostro declino politico e militare.
L'Italia c'è, quando non sono i politici a ricordarsene - dimenticando il conte di Cavour, troppo elitario e liberale - ci sono i presidenti della Repubblica, garanti, appunto, dell'unità nazionale. Carlo Azeglio Ciampi ripropose il Tricolore e l'inno nazionale, Giorgio Napolitano va oltre, sconfessando il suo lontano passato internazionalista, ribatte con forza che è necessario che tutti siamo orgogliosi di essere italiani. Va oltre. Da Marsala, luogo simbolico e cruciale della nostra unità, ha ribadito che la coesione nazionale è un valore inestimabile. La giornata era ventosa, ma il capo dello Stato ha avvertito il calore genuino di un popolo che sente la propria storia, che avverte il valore collettivo di un'unione che non pesa e non invecchia.
Ma cosa intende Giorgio Napolitano quando parla di «rinnovare il patto fondativo della nostra nazione»?
I più esperti analisti del Quirinale sostengono che il nostro presidente abbia indicato la riforma federalista per ridare slancio e giovinezza a un'Italia carica di storia.
È un'interpretazione corretta. L'Italia nata nel 1861 era squilibrata e imperfetta, gli anni, le guerre e le vicissitudini internazionali l'hanno cambiata e ammodernata, ma soltanto in parte. Occorre uno sforzo riformatore per portare il Paese all'efficienza e all'importanza del suo ruolo internazionale - l'azione dell'Italia nella crisi dell'euro innescata dal disastro greco lo dimostra - occorre uno svecchiamento della struttura statuale.
Il federalismo, se realizzato in maniera solidale e funzionale, può accrescere la responsabilità degli amministratori locali e contenere la spesa erogata dai centri periferici. È una sfida, ma il aese non può eluderla. È evidente che quella federalista deve essere accompagnata da altre riforme, il rinnovamento deve investire, oltre che le istituzioni, anche l'economia e il rapporto fra i cittadini con la pubblica amministrazione e con il fisco.
L'idea del federalismo provocherà discussioni e polemiche. Non siano fuori luogo alcune puntualizzazioni storiche.
Innanzitutto, non va dimenticato che il grosso delle fanterie che sbarcarono a Marsala - con una felice complicità internazionale - era costituito da bresciani e bergamaschi, figli generosi di quelle terre dove oggi si abbevera e si rinforza la Lega Nord. Anche la storia ha i suoi paradossi.
Ancora. Quando il Regno d'Italia fu proclamato, non c'era soltanto la lezione di Carlo Cattaneo sul federalismo. C'erano anche tanti politici e pensatori meridionali che predicavano l'autonomia e il rispetto delle prerogative politiche delle realtà meridionali. Uomini che consideravano umiliante e improduttivo il prepotere di Torino esercitato attraverso i prefetti.
Le parole del presidente Napolitano rendono omaggio anche a quei precursori dimenticati che volevano un'Italia più giusta e solidale, più italiana.

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