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La convivenza politica di Londra

Londra, si ricomincia. Dopo la breve campagna elettorale, dopo la lunga notte degli scrutini, tornano adesso i giorni di una trattativa post voto. Giorni che potrebbero anche essere settimane. E questo non perché permangano dubbi sul risultato: il Partito Conservatore "giovanilizzato" da David Cameron ha vinto su tutta la linea, ma quello che conta è se e come riuscirà a governare. Partito in testa, in testa è arrivato, non solo nel computo dei voti popolari (il 36 per cento contro il 29 per cento dei laburisti e il 23 per cento dei liberali) ma anche, e questa è la sorpresa, nella distribuzione dei seggi alla Camera dei Comuni (306 contro rispettivamente 258 e 57). La maggioranza assoluta richiesta è 326, i conservatori si fermano a 306. Se vogliono governare con efficacia hanno una sola possibilità, quasi un obbligo: mettersi d'accordo con i liberali, costituire una coalizione, riunire i due "golden boys" della nouvelle vague politica britannica, David Cameron più Nick Clegg. Metterli d'accordo non sarà facile ma è obbligatorio. Le differenze fra i due partiti che dovrebbero costituire il centrodestra di Londra sono notevoli, in qualche caso essenziali. Non tanto sulla politica economica di casa quanto nei rapporti, ad esempio, con l'Europa: i liberali sono da sempre europeisti, i conservatori sono sempre più "antieuropei". Nella politica estera: i conservatori sono tenacemente filoamericani, i liberali propongono di allentare il tradizionale rapporto privilegiato con Washington. I conservatori hanno approvato la guerra all'Irak, i liberali gli si sono opposti fin dal primo giorno. Poi l'immigrazione e la sua regolamentazione: i conservatori sono per la linea dura, i liberali si propongono di facilitare l'integrazione. Queste le divergenze, ma non ci sono alternative a un accordo. Non ci sono altre maggioranze. Se dovessero fallire i negoziati con Clegg, Cameron potrebbe in teoria cercare di coagulare attorno al suo governo i deputati dell'Irlanda del Nord e di qualche partito minore, ma non basterebbe. Brown si è riservato, se le trattative dovessero fallire, di provare lui a mettersi d'accordo con Clegg. Ma quanto a seggi sono, in due, appena una mezza dozzina di più dei conservatori. Non abbastanza. L'alternativa reale alla coalizione fra conservatori e liberali è l'ingovernabilità. La Gran Bretagna la sperimentò a lungo in quegli anni Settanta che diventarono sinonimo del "british desease", la "malattia britannica". Una lunga e tenace fase di instabilità si aprì con le elezioni anticipate indette nel 1974 dal primo ministro conservatore Edward Heath. Avanzarono i laburisti ma si fermarono a 301 seggi, 17 meno della maggioranza assoluta. Il loro leader, Harold Wilson, cercò quello che Cameron dovrà cercare adesso: un accordo con i liberali, allora molto più deboli e che misero una condizione, riforma elettorale in senso proporzionale. Respinta, Wilson rinunciò e ripassò la palla ai conservatori, che provarono a governare con l'appoggio degli unionisti irlandesi (un'altra possibilità aperta oggi a Cameron), fallì, fece un governo di minoranza, la Gran Bretagna tornò alle urne nell'ottobre dello stesso anno, questa volta i laburisti arrivarono a quota 321, appena tre seggi più del minimo. Poi persero penne per la strada. Nel 1979 si tornò alle urne e scoccò la grande ora di Margaret Thatcher. Anzi la sua era. Sono passati più di trent'anni, si rischierebbe il bis di una storia che nessuno desidera si ripeta. Anche perché ci sono sinistre assonanze nella situazione economica. La Gran Bretagna è di nuovo nella lista dei Paesi più pericolanti, la sterlina è di nuovo in bilico. Nel 2010 c'è chi parla, a Londra, di "malattia europea".

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