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Le lobby di Wall Street: un altro avversario per Obama

Prima di essere uccisi dai droni americani, due alti esponenti di al Qaeda ordinarono un attacco suicida contro la metropolitana di New York sventato in extremis nel settembre scorso. Lo ha rivelato davanti ad una corte federale di Brooklyn Zarein Ahmedzay, il tassista arrestato in gennaio al Greenwich Village, raccontando gli agghiaccianti dettagli di quello che, se posto in atto, avrebbe potuto essere il peggior attentato a New York dopo l'11 settembre. Ahmedzay, 25 anni, studente fallito del Queens College finito a guidare le auto gialle a Manhattan, ha detto al giudice che furono Saleh al Somali, il capo delle operazioni internazionali di al Qaeda, e Rashid Rauf, un elemento chiave della rete terroristica di Osama bin Laden, a dare a lui e all'autista di limousine Najibullah Zazi l'ordine di attacco. Al Somali fu ucciso nell'attacco di un drone in dicembre. Rauf, un militante britannico coinvolto nel piano per far saltare in aria un volo transatlantico nel 2006, è morto in un raid di un Predator nel novembre 2008. Ahmedzay e Zazi erano compagni di liceo a Flushing, un sobborgo di Queens. Nell'estate 2008 erano andati in Pakistan per addestrarsi coi talebani. Furono rispediti a New York per l'attacco che avrebbe dovuto coincidere con il mese sacro islamico del Ramadan. «Mi scelsero perchè conoscevo bene le strade della città» ha detto Ahmedzay sul banco degli imputati: «Volevano colpire strutture ben note, massimizzare il numero dei morti». «Tira giù quel Muro», intimò Ronald Reagan. E fu ubbidito, o meglio esaudito. Parlava a Berlino. Anche il suo indiretto successore, e ammiratore, è andato in una città dove un "muro" è re e ha detto, più o meno, la stessa cosa. Wall Street è ancora in piedi e d'altra parte il presidente democratico non intende, per carità, abbatterla bensì domarla, il che è forse ancora più difficile. Restaurare un equilibrio, anzi una diarchia, che ha governato l'America per lunghi e lunghi decenni e si è a poco a poco incrinato negli ultimi vent'anni: New York e Washington, Wall Street e Main Street, gli interessi della élite finanziaria contro i diritti e gli interessi del resto d'America. Può sembrare un linguaggio da lotta di classe, ma non lo è. Il ceto produttivo americano, dei produttori e dei manipolatori di ricchezza, degli imprenditori che costruiscono cose, prova la tentazione di ribellarsi contro una involuzione che ha spostato il potere, appunto, dai produttori ai manipolatori. C'è stato del pro e del contro finché le cose andavano bene, ma ora l'equilibrio si è rotto e lo ha dimostrato la rovinosa crisi economico-finanziaria venuta alla luce nel 2008 e, forse ancor più, con una "ripresa" troppo diseguale: le aziende ancora soffrono, i negozi languono, gli otto milioni di "nuovi" disoccupati aspettano; i grandi banchieri e speculatori hanno rimpinguato i propri portafogli e hanno già ricominciato a giocare lo stesso gioco d'azzardo. È in sostanza quello che Obama pensa da mesi e che adesso dice, rispolverando, senza citarlo, Franklin Delano Roosevelt, il più famoso presidente democratico e nominando semmai il Roosevelt repubblicano, "star" della fine del diciannovesimo secolo. Entrambi sapevano essere aggressivi all'occorrenza, contro certi avversari. Lo stile di Obama finora è stato completamente diverso. La lunga battaglia, anzi guerra di esaurimento sulla riforma sanitaria l'aveva fatto apparire piuttosto "timido" e sulla difensiva, bersaglio di attacchi feroci cui non pareva capace di rispondere, indifferente o impotente di fronte allo sfaldamento della sua popolarità, altissima al suo debutto. Il palcoscenico apparteneva alla controparte, in Congresso, sul mercato delle idee, nelle piazze. Sappiamo che lo "health bill" alla fine passò, ma per il rotto della cuffia e in molti aspetti devitalizzato se non snaturato, offrendo occasioni e argomenti all'opposizione repubblicana in Parlamento e a quella estremista dei "forum", delle kermesse, dei polemisti radiotelevisivi, dei protagonisti dei "tea party", il tutto mentre il presidente scivolava sempre di più nei sondaggi. Adesso è cambiata la musica, sono cambiate le parole. Adesso Obama è andato a Wall Street per "fustigare" i vizi e i rischi di coloro che la muovono e la manovrano. E subito dopo si è aperto in Senato il dibattito su una proposta di legge molto ambiziosa, che dovrebbe rendere molto più difficile se non impossibile una ripetizione del colossale gioco d'azzardo che ha provocato la frana. Adesso Obama li prende di petto, li sfida. Ad aprirgli la strada è, per una coincidenza forse non interamente tale, l'azione legale intentata contro la più potente istituzione finanziaria d'America, la Goldman Sachs che tanti consiglieri ha fornito agli ultimi inquilini della Casa Bianca, incluso l'attuale. Naturalmente incontra resistenze, ma di tono incomparabilmente più "conciliante" rispetto al dibattito sulla riforma sanitaria. I repubblicani non cercano stavolta lo scontro frontale ma paiono disposti al compromesso, a consentire il passaggio della nuova regolamentazione se riusciranno a diluirla e la "piazza" finora non si muove: non è cambiato il suo valore ma si dirige verso altri obiettivi, prende meno di mira Washington e di più Wall Streeet. La linea di resistenza è ora soprattutto quella delle lobby finanziarie, che Obama accusa di essere "la causa principale della recessione" mentre propone più controlli e più trasparenza, limiti alla libertà di manovra e di speculazione, addirittura l'istituzione di una tassa speciale sui profitti delle banche. E avverte e nel frattempo "tranquillizza": queste proposte non devono far paura se non ai colpevoli di metodi spregiudicati per "pungere" l'economia e il Paese. Obama resta Obama, certo: questo suo progetto, fra l'altro, si articola in ancora più pagine del pletorico documento sulla riforma sanitaria. Questa volta sono 1.336. Nessuno le leggerà tutte, ma tutti o quasi capiscono che vento tira. Un soffio che potrà riportare in alto le quotazioni cadute di questo presidente e farlo veleggiare verso una rielezione che fino a ieri pareva alquanto dubbia.

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