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Fini, un equilibrista tra due grattacieli

Gianfranco Fini è ben consapevole di camminare su un filo appeso tra due grattacieli. Sa che la situazione è esplosiva e ieri ha chiesto ai suoi di spegnere ogni principio d'incendio. Lui stesso non farà niente per riattizzarlo. Ha ribadito che il programma elettorale va rispettato alla lettera e le parole pronunciate ieri a Firenze sulle 'riforme condivise' erano molto pacate. Tutto questo lascerebbe immaginare la sua intenzione di non mettere in pericolo la stabilità del governo e di restare fedele al PdL. Vedremo. Certo, la sua rottura personale con Berlusconi è irreversibile. A quanto si son detti in pubblico (mai accaduto in una riunione di partito ripresa dalla televisione) va aggiunto quel che ciascuno dei due ripete da tempo sull'altro a qualunque persona incontri. Incompatibilità assoluta. E' la fine di un matrimonio di convenienza tra coniugi che non si sono mai amati. E se è vero che finora Fini non ha mai lasciato Berlusconi, è anche vero che se ne è distaccato infinite volte. Dal '96 quando impedì con Casini la nascita del governo Maccanico portando a elezioni che Berlusconi non voleva e che infatti perse, alla fine del 2007 quando bollò come 'comiche finali' l'annuncio del 'predellino' sulla nascita del Popolo della Libertà. Salvo poi a ripensarci quando furono sciolte le Camere. Berlusconi non considera più Fini un interlocutore. La democrazia interna così a lungo invocata dal presidente della Camera ha portato soltanto il 7 per cento del partito a votare contro il documento di maggioranza. Si è creata di conseguenza una situazione molto anomala. Nella storia politica italiana nessuno ha mai avuto la presidenza della Camera, di gruppi o di commissioni parlamentari con quei numeri. La guida di Montecitorio è stata spesso affidata a personaggi senza seguito di correnti. Ma si trattava di presidenti assolutamente fedeli alla maggioranza che li aveva espressi (Bucciarelli- Ducci, Leone, Nilde Jotti, Scalfaro, la Pivetti, Violante) o uomini carismatici di grande prestigio ma in grado di fare pochi danni (Ingrao e in fondo anche Pertini). Quando il ruolo è stato ricoperto da chi faceva valere il peso della propria corrente (Gronchi) o del proprio partito (Casini, Bertinotti) i distinguo hanno messo qualche volta a disagio le maggioranze di riferimento senza mai nemmeno immaginare lo scontro frontale che abbiamo visto l'altro ieri. E comunque sia Casini che Bertinotti avevano un partito compatto alle spalle.  Fini non vuole dimettersi,nessuno può imporgli di farlo e il problema dunque non si pone. Quando Bossi dice che Berlusconi avrebbe dovuto cacciarlo da un pezzo, dimentica che le istituzioni sono un po' più complesse della Lega dove le minoranze non sono mai state accettate. Ma poiché l'Umberto è un fine animale politico, il suo allarme di ieri su un possibile crollo del governo e dell'alleanza Lega- PdL può essere interpretato in realtà come una stretta su Berlusconi perché non tentenni sui decreti legislativi del federalismo fiscale. Fini aveva auspicato su questo punto la nascita di una commissione all'interno del PdL, Berlusconi aveva accettato. Bossi teme un rallentamento e vuole evitarlo. Ma né Bossi né Berlusconi possono accettare che le 'scintille' di Montecitorio procurino una instabilità permanente. Non può accettarle l'opinione pubblica. Meno che mai quella di centrodestra. La gente vuole governo, non confusione. Per questo Berlusconi deve sciogliere al più presto il nodo siciliano dove Raffaele Lombardo si regge su mezza gamba del centrodestra e mezza del Pd. Il Cavaliere è molto legato a Marcello Dell'Utri e a Gianfranco Miccichè, avversari nell'isola di Renato Schifani e Angelino Alfano, ma non può tollerare a Palermo il frazionismo respinto a Roma. In questo gioco si inserisce con molta prudenza l'Udc. Berlusconi sente quasi ogni giorno il segretario Cesa. Casini non vuole rientrare al governo, ma difficilmente darà vita a una federazione con Fini e Rutelli. Probabilmente sosterrà il governo nei passaggi più difficili (ma non sul federalismo) in attesa di giocare carte che ancora non ha in mano.

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