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Gay? Un appellativo, non un offesa

Lascia francamente perplessi la sentenza con cui la Corte di Cassazione conferma la condanna inflitta dal tribunale di Ancona nei confronti del vigile urbano che, in una lettera ad un collega, aveva fatto riferimento al suo "essere gay" e alle esperienze vissute, in quanto tale, con un altro uomo. La motivazione della condanna era stata che le espressioni usate dall'imputato nella lettera "esprimevano riprovazione per le tendenze omosessuali" del collega.
Nell'articolo con cui un quotidiano on line riferisce della vicenda, intitolato "La Cassazione boccia gli insulti omofobi", si legge che "con questa pronuncia la Suprema Corte ha voluto dire basta alle denigrazioni nei confronti degli omosessuali, ricordando che simili condotte possono sfociare in una condanna per ingiuria".
Certo, non si può e non si deve dimenticare la storia dolorosa di umiliazioni e di persecuzioni di cui, e non solo nel nostro Paese, i gay sono stati per tanto tempo le vittime. Una storia tanto più dolorosa per il fatto che in questo caso è in gioco non un'astratta teoria, ma l'identità stessa delle persone.
Perché di questo si tratta. La maggior parte degli omosessuali, a chi parla, nel loro caso, di una "scelta", ribattono con irritazione di non aver fatto nessuna scelta e di essersi semplicemente resi conto di essere quello che sono, di un'identità, appunto, per cui legittimamente chiedono rispetto.
E tuttavia parlavamo, prima, di una nostra perplessità di fronte alla sentenza in questione. Una perplessità che nasce da due considerazioni. La prima è che il termine "gay" non è un epiteto o una storpiatura - come potrebbe essere "negro" riferito a una persona di colore - , ma è ufficialmente considerato dagli stessi omosessuali di sesso maschile il termine più appropriato per definire la loro identità sessuale. L'uso di questo termine non si configura dunque in alcun modo come una "denigrazione" o un "insulto omofobo". La seconda è che il parlare "esprimendo riprovazione per le tendenze omosessuali" di qualcuno ci sembra rientri a pieno titolo nella libertà di opinione che caratterizza uno Stato democratico.
Non ci sembra, da questo punto di vista, che si renda un buon servizio ai gay ritenendoli diversi - come una specie protetta - da tante altre categorie di persone la cui denominazione viene spesso, oggi, utilizzata come un'accusa. Penso a quei seguaci del marxismo ancora fedeli a questa dottrina, nei cui confronti viene frequentemente lanciata, come se fosse una colpa, la definizione di "comunisti", che non credo si siano mai sentiti offesi da questo tipo di attacchi. Così come può esserci - anzi c'è oggi sempre più frequentemente - un modo di usare l'aggettivo "cattolici" con totale riprovazione, perfino con un malcelato disprezzo, senza che gli interessati, ove siano veramente appartenenti alla Chiesa cattolica, se ne sentano minimamente turbati. Chi è fiero della propria identità - sia essa sessuale, politica o religiosa - non ha motivo di sentirsi sotto accusa se qualcuno, anche con cattive intenzioni, gliela rinfaccia.
Se dal lato delle pretese vittime la sentenza di Ancona, confermata dalla Cassazione, appare poco appropriata, anzi, a dire il vero, mortificante, sotto un profilo culturale essa è addirittura inquietante. Nella nostra società è diventato lecito pensare e dire quasi tutto. Ci si vanta da parte della nostra classe intellettuale del fatto che, dopo una lunga lotta liberatrice, non ci sono più dogmi, non ci sono tabù, di fronte a cui si debba tacere. Ci si ritiene in diritto di deridere il Papa, anche se egli è considerato da una comunità di più di un miliardo di persone una figura religiosamente significativa e degna perciò del massimo rispetto. Si possono dissacrare tutti i valori più consolidati, in nome della libertà. Nulla più sfugge alla critica pubblica più corrosiva, alla satira più irriverente, perfino al dileggio più volgare.
Di fronte a questo quadro, non può non stupire una condanna giudiziaria basata principalmente sul fatto che qualcuno, in una lettera, osi "esprimere riprovazione per le tendenze omosessuali" di qualcun altro e, ancora di più, che i sostenitori della più totale libertà di critica si schierino a favore di un simile decisione. A torto o a ragione, c'è chi non ritiene quella omosessuale una pratica condivisibile e la riprova. Si potrà sostenere che è una posizione superata. Ma è un reato pensarla così? Tutti i divieti sono caduti, tranne quello di credere ancora che ci siano cose giuste e cose sbagliate? Sarebbe grave, qualunque sia la valutazione di merito dei singoli casi.
Le critiche alla pratica dell'omosessualità non possono e non devono trasformarsi mai una discriminazione e in una mancanza di rispetto nei confronti degli omosessuali. Ma non ci si dica che si configura come tale il chiamarli col nome che essi stessi si danno, esprimendo sul loro stile di vita il proprio libero dissenso. Sarebbe l'ultimo tabù, il più pericoloso, perché introdotto in nome della lotta contro tutti i tabù.

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