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Il revisionismo e il negazionismo

Esiste «un abuso della storia»? Si pone questo quesito il prof. Aldo Giannuli (ricercatore all’Università di Milano) nel saggio «L’abuso pubblico della storia - Come e perché il potere politico falsifica il passato» (Guanda). Il dibattito su questo tema è aperto da almeno 20 anni, da quando ha cominciato a prendere piede il revisionismo storico verso la fine degli anni ’60 e che ha avuto con Renzo De Felice, Francois Furet ed Ernst Nolte i maggiori punti di riferimento. In sostanza esso propone una rilettura del ’900 che, nel caso di Furet, si spinge indietro sino alla rivoluzione francese. Ma questo fenomeno ha prodotto anche il negazionismo, soprattutto per quanto concerne la Shoah. Lo stermino degli ebrei da parte dei nazisti viene negato o quantomeno ridimensionato, da autori quali David Irving, Robert Faurisson, Paul Rassinier, Pierre Guillaume, Carlo Mattogno, Cesare Saletta, ecc.  «Uso pubblico della storia» è una espressione coniata nel 1986 da Jurgen Habernas, durante un dibattito fra i maggiori storici tedeschi sul tema delle responsabilità della Germania nel genocidio ebraico. L’autore analizza tutte le forme di revisionismo storico, dedicando particolare attenzione al «caso italiano», caratterizzato spesso da un revisionismo che fa uso (e abuso) di «spettacolarizzazione» degli eventi storici a fini di polemica contingente. Un’analisi che fa molto riflettere. Del metodo revisionista si avvale anche il prof. Tony Judt, un carismatico storico inglese che ha insegnato a lungo nelle università di Cambridge, Oxford, Berkeley e New York. Lo studioso ha scritto una ponderosa storia dell’Europa dal 1945 ad oggi («Dopoguerra», Mondadori). A 60 anni di distanza le «due Europe» (quella occidentale e quella dominata dai sovietici) sono soltanto un ricordo: dopo il crollo dell’Urss, com’è noto, la maggioranza dei Paesi dell’Est si è «occidentalizzata» e oggi fanno parte dell’Unione europea. Judt racconta in ogni dettaglio tutte le fasi di sei decenni di storia (comprese le guerre, le ribellioni, i massacri nell’ex Jugoslavia e, prima ancora, le dittature di Salazar, di Franco, dei colonnelli greci, ecc.). Ma le 1.100 pagine del saggio non dimenticano le crisi, le rinascite economiche, il movimento femminista, il cinema italiano e francese, i Beatles e le mode giovanili. In altre parole, «Dopoguerra» ricostruisce le fasi più salienti della rinascita del Vecchio Continente e della sua identità, ancora in fase di definizione. Lo stesso metodo lo vediamo applicato anche da Jeremy Salt, professore di scienze politiche alla Bilkent University di Ankara.  Quest’autore è stato a lungo anche corrispondente dal Libano di diversi giornali. Nel saggio «La disfatta del Medio Oriente» (Elliot), Salt analizza due secoli di interventi occidentali nei Paesi islamici. Comincia con la conquista napoleonica dell’Egitto, sino all’invasione dell’Iraq da parte della coalizione di Stati guidata dagli Stati Uniti, utilizzando un’immensa mole di documenti, fra cui alcuni riservati provenienti dagli archivi segreti delle Intelligence britanniche e americane che svelano numerosi disegni della politica internazionale di ieri e di oggi. L’impressione però che si ricava dalla lettura di questo saggio è la scarsa obiettività, l’esaltazione del pregiudizio ideologico sugli Usa e gli altri paesi occidentali sempre «colonizzatori» e «imperialisti» nei confronti dei Paesi dell’Islam. Insomma l’Occidente viene sempre accusato di voler imporre «come decreto dittatoriale la civilizzazione e la democrazia» nei Paesi Arabi.  Infine, un saggio di grande rigore scientifico che ci riconcilia con la ricerca storica di grande scuola. Ci riferiamo al libro di Emilio Gentile, professore di storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, dal titolo «L’apocalisse della modernità» (Mondadori). L’autore focalizza la sua analisi sulla prima guerra mondiale, quel conflitto che all’inizio aveva suscitato tante speranze, esaltazioni e illusioni ma che ben presto si è rivelato un «bagno di sangue». A quel punto gli entusiasmi cessarono di fronte all’enormità delle masse mobilitate, alla colossale potenza bellica e industriale impiegata, all’esasperazione parossistica dell’odio ideologico, all’ingente numero di soldati sacrificati (ma anche di popolazione civile) inutilmente. «Quando la Grande guerra iniziò, l’uomo europeo era orgoglioso di appartenere ad una civiltà trionfante ovunque nel mondo. Quando cessò aveva perso l’orgoglio della propria superiorità ed era angosciato dalla visione di un futuro senza speranza». Gentile ricostruisce il contesto sociale, culturale e antropologico entro il quale maturò quella che è ritenuta dagli storici (anche quelli revisionisti) una delle più tragiche esperienze del '900.

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