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I nostri soldati che portano la pace all'estero

Le aree di crisi che maggiormente preoccupano la comunità internazionale sono quelle del Medioriente e dell’Afghanistan anche se non è venuta mai a mancare l’attenzione verso le crescenti instabilità dei Balcani, dell’Africa equatoriale, del confine indo-packistano e di quello tra le due Coree. L’attuale politica estera americana e quella dell’Ue, come noto, considerano il teatro afghano di primaria importanza per la presenza del terrorismo internazionale fondamentalista di Al-Qaeda. In tale contesto, la Casa Bianca ha deciso di stringere i tempi della lotta al regime dei talebani, rinforzando il proprio contingente di ben 30.000 unità, richiedendo alla Nato e alla Comunità europea di fare altrettanto. L’Italia ha aderito promettendo d’inviare, in quel delicato teatro, altri 1.300 militari con compiti non solo operativi ma anche di ricostruzione del Paese e di addestramento delle forze armate e di polizia di Kabul. In tale quadro, il presidente Napolitano, nella sua recente visita a Bruxelles, ha ribadito in sede Nato la necessità della partecipazione italiana alle missioni di pace in Afghanistan, in Iraq e in Libano per normalizzare quelle aree d’instabilità e combattere il terrorismo fondamentalista che minaccia la sicurezza e il vivere civile della nostra democrazia.  Il tempo stringe per Obama, le elezioni presidenziali, infatti, si avvicinano e per creare le condizioni per un possibile ritiro americano oltre che dall’Iraq anche dal teatro afghano, è stata sferrata, di recente, dagli Stati Uniti e dalle forze governative di Kabul una vasta offensiva contro i talebani, impegnandoli a fondo, nel sud del Paese, nelle zone da questi controllate, ottenendo un notevole successo con la parziale disarticolazione del loro dispositivo, mettendo fuori combattimento alcuni dei principali signori della guerra. Il governo pakistano, contro ogni previsione, ha reso noto di aver catturato, nella cittadina di Quetta, Abdul Ghani Baradar, numero due della guerriglia talebana, molto vicino al mullah Omar che però è sfuggito alla cattura. In verità il servizio segreto pakistano (Isi) ha operato con gli agenti della Cia, catturando anche il portavoce di Al-Qaeda, Adam Gadahn, ma la testa di Al-Qaeda continua a rimanere intatta e Bin Laden, con lo stato maggiore e il suo vice, grazie anche al favore delle popolazioni pashtun e tagichi, vicine ai talebani, è riuscito ancora una volta a non farsi catturare, se mai fosse stata tentata la cattura, conservando intatta la sua pericolosa operatività terroristica contro l’Occidente. La cattura di Baradar è comunque un successo insperato per Washington perché oltre ad aver eliminato il capo del consiglio talebano (Shura), che guidava le incursioni della guerriglia talebana dal Pakistan in Afghanistan, è un segnale positivo perché Islamabad sembra deciso a tornare a collaborare con l’alleato americano che sostiene il suo governo con finanziamenti di ben 300 milioni di dollari l’anno per evitare la destabilizzazione che lo condurrebbe, con i suoi 170 milioni di abitanti e il potenziale atomico, in braccio alla Cina o alla Russia. Le richieste del generale Stanley Mc Chrystal, responsabile delle forze americane in Afghanistan, condivise dal generale David Petraeus,capo del Comando centrale americano, di avere maggiori forze a disposizione delle coalizioni Isaf e Enduring Feedom sono state esaudite a premessa di successi sul campo di battaglia, necessari per debellare o quanto meno limitare la presenza talebana e per iniziare, nel 2011, il promesso e sperato ritiro delle forze terrestri americane dal Paese. È una promessa ambiziosa quanto ottimistica di Obama quella di una possibile «exit strategy» (il ritiro strategico dal teatro afghano) ma è bene tener presente che i talebani e Al-Qaeda sono ancora lontani dall’aver esaurito la loro capacità operativa e hanno addirittura esteso la loro presenza sul 40% delle provincie afghane. Lo sforzo bellico americano, anche se sorretto da quello di altri 40 Paesi che hanno limitato i «caveau d’impiego», è molto oneroso, come lo fu in Vietnam, in termini di vite umane e di risorse economiche. I risultati, pur migliorati rispetto al recente passato, non possono definirsi entusiasmanti se si tiene conto che in nove anni di lotta, in quel difficile Paese, i talebani sono tornati a controllarne il sud, rendendo insicure tutte le altre province con continui attentati suicidi e agguati ai contingenti della coalizione. L’Iraq, che sembrava avviato alla pacificazione e a una consolidata democrazia, è tornato ad essere insicuro e terra di attentati di Al-Qaeda, in occasione delle elezioni presidenziali che comunque si sono concluse, con un indubbio successo per il processo di democratizzazione in atto. Bin Laden ha esteso la sua presenza anche nello Yemen, nell’Africa centrale e del nord, sul confine indo-pakistano e su quello tra il Pakistan e l’Afghanistan. Sono in molti a sospettare che non si voglia catturare il capo di Al-Qaeda e il suo vice per non farne dei martire jihadisti. Come sono in parecchi ad essere scettici della vittoria in tempi brevi se si tiene conto dell’esperienza dell’Armata Rossa che non è mai riuscita ad aver ragione dei mujaheddin. Questi, addirittura, nell’estate del 1980, passarono dagli attentati alla lotta aperta, tipica delle operazioni cosiddette convenzionali. Tutto ciò significa che la via della pace è ancora molto lunga, difficile e piena di pericoli. È saggio, probabilmente, considerare, con un sano pessimismo, che la strada dell’inferno è lastricata di vane promesse per non ripetere gli errori del passato commessi in Vietnam e in Cambogia.

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