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Zambuto: "Così ho rimesso a posto i conti del Comune"

Il sindaco di Agrigento tira le somme dopo tre anni di mandato: «Ho trovato il deserto e gli ultimi segni dell’assalto alla diligenza. Una scena penosa. Avevamo innanzi il baratro e una scelta obbligata»

Agrigento. Da piccolo gli hanno insegnato che il Comune era una «vacca grassa». Erano gli anni Ottanta e papà Lillo era, anche lui sindaco (vizio di famiglia!). Ma quando nella primavera del 2007 Marco Zambuto ha indossato la fascia tricolore e messo piede a Palazzo dei giganti, da mungere c’era rimasto praticamente poco. Meglio dire nulla. «Ho trovato il deserto e gli ultimi segni dell’assalto alla diligenza. Una scena penosa. Avevamo innanzi il baratro e una scelta obbligata».

Quale?

«Quella di dichiarare il dissesto finanziario. Un’ipotesi che però non ho mai accarezzato, per la semplice ragione che se l’avessi adottata sarebbe stato un pessimo esordio. Ed invece alla soluzione facile facile e senza scrupoli ho anteposto la voglia di fare e di mettermi in discussione, ed al servizio della mia città, nel momento, forse, più difficile della sua storia millenaria. Dichiarare il dissesto avrebbe avuto il sapore della profanazione. E sarebbe stato ingiusto per la gente che vive e lavora attorno al Comune».

Cosa vuol dire?

«Che avremmo dovuto licenziare tutti i lavoratori precari, avremmo dovuto buttarli via per mancanza di fondi. E non sarebbe stata una scelta oculata anche dal punto di vista amministrativo».

Perché?

«Per la semplice ragione che i precari in forza al Comune sono 222 a fronte di un organico di circa ottocento dipendenti. Costituiscono un terzo del personale. Senza di loro avremmo messo in ginocchio la macchina burocratica».

Parlavamo di deficit, a quanto ammontava?

«A circa quaranta milioni di euro».

Ed oggi a che punto siamo arrivati?

«A meno tredici, forse quindici».

Come si è arrivati a questo risultato?

«Riducendo del 30 per cento l’importo dell’indennità mensile di carica del sindaco e degli assessori, di non nominare alcun esperto, di non pagare consulenze esterne, di non aprire la maglia delle collaborazioni onerose, di spostarsi senza auto di rappresentanza, di ridurre ogni spesa superflua, di evitare esborsi di immagine, di non finanziare manifestazioni effimere, di non offrire patrocini onerosi, di non alimentare feste e festicciole inutili».

Restano 15 milioni di euro di disavanzo...

«Siamo a buon punto e contiamo di azzerare i conti in rosso con la vendita degli immobili di proprietà del Comune. Una scelta dolorosa, ma indispensabile per risalire la china e svoltare. Lasciandoci alle spalle un passato di cui c’è solo da vergognarsi. Noi siamo al lavoro ogni giorno senza essere spinti dalla voglia di coltivare clientele, operare lottizzazioni o sperperare il poco pubblico denaro che siamo chiamati ad amministrare. Ciò che ci guida è l'attenzione alla città ed al suo bene, senza scendere a compromessi, rimanendo liberi.

La vendita delle proprietà è inevitabile?

«Avevamo chiesto aiuto alla Regione ed allo Stato per emanare una legge speciale in favore della nostra città. Abbiamo ricevuto delle promesse. Poi neanche quelle».
Lei ha vinto le elezioni con una coalizione al di sopra dei partiti, urlando nei quartieri lo slogan «Cambiare Agrigento».

 

Ma Agrigento può cambiare?

«Guardi che è una questione di opportunità. Ma di un obbligo. Si rende conto che dopo tanti anni di parole e sprechi siamo rimasti il fanalino di coda del Paese. Lo «zimbello», additati e conosciuti solo per i fatti negativi che purtroppo hanno fatto e fanno parte del contesto sociale che viviamo. Cambiare non è una scelta, ma una necessità. O si cambia o si muore, per dirla con uno slogan. Abbiamo il dovere di lasciare alle nuove generazioni, ai nostri figli, una situazione migliore di quella che abbiamo trovato. Ne va della nostra credibilità personale e quella della buona politica. Ecco io credo di aver già fatto molto in questo senso».

Cioè?

«Con me il valore della politica è cambiato. Non è più la ricerca delle intese sommerse, dei privilegi per pochi e delle prebende per molti. Il Comune è una sede dove c'è posto per tutti. Prima era la roccaforte degli interessi e dei clan del potere. Oggi è il luogo dove si cerca di dare una risposta ai bisogni della città».

Più che di bisogni occorrerebbe meglio dire emergenze. Agrigento è infatti la terra dove tutto raggiunge l’estremo, il paradossale, il ridicolo per i problemi che non trovano mai soluzione...

«E con i bilanci devastati continuerebbe ad essere sempre più difficile. Abbiamo provato la mortificazione di aver avuto sospesa la fornitura di energia elettrica per non essere riusciti a pagare le bollette».

Facciamo una carrellata delle emergenze. Iniziamo ovviamente dalla situazione idrica. C’è da rifare la rete idrica. A che punto siamo?

«Finalmente abbiamo il progetto. Lo ha fatto «Girgenti acque» su delega dell'Ato idrico. È stato realizzato dallo studio Carlino. Siamo in attesa del nulla osta del Comitato tecnico regionale. Poi occorrerà emanare il decreto della Regione siciliana. Potremo contare sui Fondi Fas: in capitolo c’è già una voce che indica espressamente la “riserva” per la città di Agrigento. È tutto pronto, ci sono i soldi ma siamo bloccati dalla burocrazia. Avevamo chiesto procedure più snelle e più celeri, per esempio coinvolgendo la protezione civile. Non siamo stati ascoltati».


C’è poi la questione del dissalatore di Porto Empedocle. I cui costi rischiano di gravare tutti sulle spalle del Comune....

«Nel 2007 venne deciso che tre anni una parte delle spese era a carico della Regione il resto del Comune. Dovrà essere trovata una soluzione, altrimenti c'è il rischio concreto della chiusura. Del resto il rifacimento della condotta del Favara di Burgio ha migliorato e potenziato l’approvvigionamento da quel fronte, e la quantità è sufficiente. Il dissalatore ha però un valore strategico, ma subentra il problema finanziario. E non siamo in condizione di farne fronte da soli».

C’è poi il problema del centro storico. Crolla a pezzi, ed è un problema per l’incolumità pubblica...

«Anche questa è una storia vergognosa. Nel 2007, poco dopo l'insediamento, andai alla Regione per chiedere notizie sulla legge del 1976 che destinava 40 miliardi. Mi spiegarono che hanno aspettato inutilmente fino al 2004. Poi li hanno tolti. È una cosa che grida vendetta. Vi erano i fondi ma non furono utilizzati».

Cosa mancava?

«Il piano particolareggiato. Ma in realtà si potevano fare dei piani stralcio. Persi quei soldi siamo in una situazione a pezzi. Sono arrivati solo 500 mila euro per affrontare l’emergenza. Abbiamo presentato progetti, dimostrando di avere competenza. Attendiamo gli esiti».

Ma nei giorni scorsi si era parlato della possibilità di rifinanziare la legge del 1976 e recuperare quei 40 miliardi di vecchie lire...

«È la battaglia che chiediamo che venga sostenuta dai nostri parlamentari ed nei governi palermitani e romani. Anche lì avremmo bisogno di quei 40 miliardi vecchie lire. Finora abbiamo raccolto una disponibilità del governo regionale. Ma va concretizzata, quei soldi ci servono».


Quindi al momento non c’è nulla che possa riguardare il recupero dei vecchi quartieri?

«Per fortuna è in fase avanzata il progetto «Terre Vecchie». Si tratta di undici milioni di euro per ristrutturare abitazioni che si trovano dietro il Municipio e fino alla Cattedrale. I privati sono stati già selezionati. Dunque 5 milioni di ero saranno finanziamenti pubblici, 4 li tireranno fuori i privati e due il Comune attraverso un mutuo. Viste le nostre condizioni finanziarie credetemi, è uno sforzo immane».

C’è poi l’emergenza rifiuti, la città da giorni è sommersa dalla spazzatura.

«È un grande paradosso, che dimostra il fallimento di questo sistema. Il passaggio all'Ato rifiuti avviene nel 2005, ebbene abbiamo avuto un aumento della tassazione (dalla Tarsu alla Tia) del trecento per cento. Nel 2004 costava 161,36 euro nel 2005 317,38. E questo avviene per scelte discutibili che vennero compiute dal Comune ed oggi ne paghiamo le conseguenze. Oggi abbiamo il danno e la beffa, gli agrigentini pagano questo enorme costo ma non serve. Poi qualche altro comune non paga e tutto va in tilt».

In tutto questo andazzo fa, poi, da cornice la crisi del lavoro e la disoccupazione. Agrigento è terza in tutt’Italia.

«Se avessimo sposato la strada del dissesto finanziario la situazione sarebbe stata peggiore. Abbiamo salvato tanti padri di famiglia e frenato il tasso di disoccupazione».

Ma in tutto questo clima di ristrettezze qualcosa è stato pur fatto...

«Non siamo stati con le mani in mano. Abbiamo fatto la nuova piazza Stazione, riaperto i sottopassaggi, la biblioteca La Rocca, lo stadio Esseneto ha un manto erboso da serie A, riaperto la villa del Sole. Poi abbiamo sbloccato la costruzione della palestra di Piazza Ugo La Malfa, una vicenda ferma da 35 anni. Abbiamo superato con una transazione anche il contenzioso con il progettista che, nel frattempo era morto. La parcella era di 300 mila euro, gli eredi si sono fermati a 100 mila. Il resto li utilizzeremo per la copertura della palestra. C’è poi il contratto di quartiere di Fontanelle. Il campo del Villaggio Peruzzo è una realtà. Abbiamo riaperto il Parco dell'Addolorata».

Poi traguardi anche dal punto di vista culturale...

«Abbiamo restituito alla città il Palazzo dei Filippini aperto grazie a Michele Guardì. Non da soli non ci saremmo riusciti».

C’è qualcosa che la fa star male, per non poter riuscire a realizzarla per mancanza di risorse finanziarie?

«Vorrei dare una riposta alle tante persone che ogni giorno con dignità vengono a bussare alla porta del mio ufficio. Vorrei realizzare l’illuminazione pubblica del Villaggio Mosè, non esiste. Per un quartiere così grande è una vera vergogna frutto degli anni bui della politica e le guerre infinite di potere: ora che sono finiti i soldi, sono rimasti i problemi e la situazione è rimasta immutabile. E, col passare del tempo, la cronicità rischia di farli diventare eterni. Io l’ho sempre detto. Per Agrigento ci vuole un miracolo. Per questo ho affidato la città alla Madonna».

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