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Nè vincitori nè vinti

Sfido chiunque non sia un professionista della politica a capire che cosa stia succedendo con le famigerate liste del PDL nel Lazio e in Lombardia: tra ritardi, timbri sbagliati, firme dubbie, ricorsi, controricorsi, decreti interpretativi, appelli, contrappelli, conflitti istituzionali, contrapposizioni tra magistratura amministrativa e magistratura ordinaria, siamo riusciti a costruire un pasticcio che perfino il miglior Kafka avrebbe faticato a descrivere. Una vicenda cominciata per la dabbenaggine, o leggerezza, o superficialità - chiamatela come volete - di pochi mestieranti della politica incaricati di un adempimento burocratico si è trasformata cammin facendo in una crisi nazionale, con seri risvolti istituzionali, che rischia di influire pesantemente sull'esito delle prossime elezioni regionali. Una crisi, diciamolo subito, da cui nessuno esce bene: non gli organi di controllo che, in Lombardia, hanno usato due pesi e due misure nel valutare la regolarità delle firme di presentazione delle varie liste e nel Lazio hanno fatto prevalere il diritto formale su quello sostanziale, il cavillo sul buon senso; non il governo, che nel tentativo di rimediare al pasticcio ha fatto ricorso a un decreto "interpretativo" che non solo ha sollevato molte riserve giuridiche, ma non si è nemmeno rivelato adeguato alla bisogna; non l'opposizione, che prima è sembrata disponibile a risolvere il caso per dare modo a tutti di partecipare regolarmente alle elezioni, ma poi, nella scia di Di Pietro, ha cambiato rotta e forse nella speranza di vincere a tavolino in due ragioni quasi certamente perdute in partenza ha presentato l'iniziativa governativa come una specie di golpe, cui rispondere con il blocco dei lavori parlamentari e la mobilitazione della piazza. "Il Giornale" ha titolato ieri "Manicomio Italia" e aveva perfettamente ragione. Se fossimo un Paese normale, il caso non sarebbe neppure sorto, o sarebbe stato risolto senza drammi, lasciando che le cose facessero il loro corso, la campagna elettorale si svolgesse regolarmente e il confronto avvenisse sui problemi reali del Paese e delle regioni in cui si vota. Invece, la storia delle liste, che pur non tocca in alcun modo gli interessi degli elettori ed è - tutto sommato - anche politicamente irrilevante, è diventata il tema centrale dello scontro tra i partiti, con scambi di accuse e (da parte dei soliti di Di Pietro & Co.) di insulti davvero degni di miglior causa. Il guaio è che, almeno stando ai sondaggi, questa vicenda artificialmente amplificata sta influenzando l'elettorato più di tutti gli altri problemi, facendo perdere al governo dai tre ai quattro punti di consensi. Per fortuna, mancano ancora venti giorni all'apertura delle urne - sempre che non vengano accolte le richieste di rinvio - e gli elettori hanno perciò il tempo per ricredersi e orientare il loro voto in base a ciò che davvero conta: da un lato, il giudizio sull'operato del governo, che, soprattutto se confrontato con quello di altri Paesi in questi tempi di crisi, contiene più luci che ombre e soltanto in presenza di un risultato elettorale accettabile potrà proseguire efficacemente il suo lavoro; dall'altro, la valutazione dei candidati dei due blocchi nelle tredici regioni e il bilancio delle amministrazioni uscenti. Solo se chi sarà chiamato a votare sarà capace di ridimensionare la vicenda delle liste a quel che è - un banale incidente di percorso - quello del 28 aprile non sarà uno sfogo umorale, ma un esercizio democratico finalizzato agli interessi del Paese.

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