Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Fragalà, l'attesa e l'angoscia al Civico

Nei corridoi dell'ospedale un pieno di familiari, amici e conoscenti dell'avvocato. La moglie è distrutta ma non molla. Telefonate da tutta Italia

Palermo. L’odore della attesa è quello tipico dell’ospedale, inconfondibile. Un misto acre di disinfettante, medicinale e prodotti commerciali. E’ inconfondibile, lo riconosci subito, ti entra nelle narici. La disperazione di una sala rianimazione invece ti entra subito dentro, in circolo, si insinua dentro di te una sensazione strana, di disagio, anche se fuori sei freddo. E quando oltre quella porta color marrone che si apre solo per pochi minuti al giorno c’è un tuo caro, tutto ciò diventa insopportabile. Peggio è quando il male di chi ti sta vicino diventa un fatto non solo personale, ma pubblico. Come l’aggressione di Enzo Fragalà, un uomo conosciuto da tutti, e non solo a Palermo. “Hanno chiamato da tutta Italia”, dicono, “tutti vogliono sapere come sta”.
La moglie Silvana è quella che visivamente descrive meglio la tragedia: dritta e gentile con tutti, stringe le mani e bacia chiunque, a volte sembra che sia lei a dare coraggio agli altri. Ma barcolla, ogni passo è indeciso, e le sue amiche la sorreggono discretamente da dietro.
Accanto a lei si forma un cerchio umano di tutte le età: giovani uomini e donne, colleghi e allievi del marito, amici della figlia Marzia, avvocato come papà, politici di ogni partito e di ogni schieramento, genti comune. Un muro umano a voler preservare l’intimità in una situazione dove l’intimità stessa non esiste quasi. “Mamma, vuoi qualcosa da mangiare?”, dice il figlio, ma la risposta è sempre no. L’attesa non perdona i nervi, non perdona i volti e non perdona il fisico, non lascia spazio a nulla, tantomeno al cibo. La percepisci subito in chi la vive così drammaticamente, senza possibilità di fuga. Perché chi vive questo tipo di attesa sa che la propria vita è cambiata e niente sarà più come prima. Soprattutto se non ne capisci il senso, il motivo. In una parola, se è un perché che manca al tassello della comprensione.
Ed è quel perché la domanda che chiunque, davanti a quella porta marrone, fa a se stesso e agli altri. Gli volevano bene tutti, era sempre allegro e disponibile, aveva sì le sue cause, come tutti gli avvocati, ma niente sembrava preoccuparlo. “Perché in questo momento Enzo si trova lì, oltre quella porta, insieme a tre infermieri e a un carabiniere sempre con lui?”, si chiedono gli amici.
Il movimento della porta, il suo rumore e l’aria che ne consegue sono diventati il metronomo della giornata di attesa. Ad ogni apertura, un sussulto, gli sguardi che si spostano. Per sapere, per capire, per sperare. “E’ in pericolo di vita, ma sta lottando”, dice la moglie, mentre la figlia a pochi metri di distanza è sorretta, anche lei, sconvolta. Come lo sono tutti, del resto.
Ci sono più giovani che politici. Ti fermi, parli con loro e capisci che per loro Fragalà era un compagno di avventura, non un capo, non un maestro. “Ci ha insegnato tante cose, nella politica si trovano sempre persone che ti ostacolano, lui no, non era così. Ti faceva capire, ha fatto tutta la gavetta, ha militato, ha lottato. Sembrava sereno, tutti sembravano sereni accanto a lui”, dicono i “suoi” ragazzi. E nel tardo pomeriggio, in una piccola saletta attigua al reparto di Rianimazione, la famiglia e alcuni amici si sono riuniti in preghiera, recitando il Rosario.
Ma rimane sempre quel perché, rimangono sempre tante, troppe ipotesi. A nessuno viene in mente niente di plausibile. La ferocia del gesto, però, ha colpito tutti. “Nemmeno alle bestie si fa questo, nemmeno alle bestie”. E intanto l’attesa continua, tra una porta che si apre e si chiude e quell’odore che ti entra sempre più dentro le narici, ma non ti sa spiegare i perché.

Caricamento commenti

Commenta la notizia