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Faber, 70 anni e non sentirli: a Roma mostra in suo onore

L'esposizione, dal titolo "Fabrizio De André. La mostra", è stata organizzata nei locali dell'Ara Pacis. Si tratta di un percorso multimediale di Studio Azzurro

Roma. Sono trascorsi undici anni dalla scomparsa di un inimitabile cantautore della musica italiana: Fabrizio De Andrè, colui che ha dato alla sua musica e alle sue parole, violenza e nostalgia, nostalgia che diviene trapasso di tempo, infinito e finito. Ricorre oggi l'anniversario della nascita; Roma insieme a Genova e Nuoro, rendono omaggio a Fabrizio De André ospitando, negli spazi espositivi del Museo dell´Ara Pacis, "Fabrizio De André. La mostra" il percorso multimediale di Studio Azzurro – uno dei più importanti gruppi internazionali di videoarte – per raccontarne la vita, la musica, le passioni che lo hanno reso unico e universale, interprete e in alcuni casi anticipatore, dei mutamenti e delle trasformazioni della contemporaneità. Autore ancora molto poco conosciuto, rispetto allo spessore delle sue canzoni che stanno divenendo letteratura. Le sue opere, infatti, verranno, presto, inserite nei testi antologici, per poter essere analizzate e studiate dagli alunni di tutte le scuole. Faber, così definito dai sui fan, è stato un attento osservatore della società e della moltitudine dei suoi protagonisti, combattuti dall’apparenza e dall’essenza, e nei suoi testi erge, infatti, continuamente tale divario; sempre in bilico tra antitetici emisferi e travagliate sensazioni di vita e morte, suicidio e amore. Rinasce nelle sue opere l’amore romantico, il bello morire, la lotta tra eros e thanatos, quell’amore che rende tale sentimento una continua lotta, un amore che fa diventare ciechi fino a mutarsi in sacrilego, in follia, come nel caso de “La ballata dell’amore cieco”; un incalzante ritmo rimato, fa da cornice ad un “dramma–greco” distogliendo per un attimo l’attenzione da quelle che sono le parole del testo, e la storia narrata. Oppure ne “La ballata di Michè”, che racconta dell’amore tra due giovani, vincolato dalla condanna carceraria, per l’uccisione di chi “...voleva rubargli Marì…” e ancora una volta, tale dramma, trova soluzione nella sublime morte, nel suicidio. Fabrizio ha saputo cogliere dall’ovvietà e, dalla scontatezza di un mestiere duro e faticoso, come potrebbe esserlo quello di un pescatore, o, talvolta denigrante come quello di un fannullone, qualcosa di assolutamente misericordioso e, ha regalato ad essi una sfumatura molto, molto vicino alla perfezione. “… e chiese al vecchio dammi, il vino, ho sete e sono un assassino. Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno, ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete e ho fame…ma non si sdegni la brava gente se nella vita non riesco a far niente. Tu vaghi per le strade quasi tutta la notte sognando mille favole di gloria e di vendetta… non si risenta la gente per bene, se non mi adatto a portar le catene…”. Scrisse anche di quei “perbenisti” che di mestiere fanno ciò che, per il social giudizio, quieta qualsiasi diceria, e salva dalla maldicenza, come in “Un medico”, “Un chimico” o ancor meglio nella canzone “Un giudice”, la storia di un nano, deriso e offeso dalla gente, schernito fino a sentirsi dire che “… un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo…”, poi di colpo, una volta divenuto giudice, la statura non è più motivo di derisione. Essenziale in De Andrè la figura femminile che si sdoppia in madre–madonna e donna, un binomio tra spiritualità e carnalità, come nella donna di “Bocca di rosa”, narrata in modo prettamente lussurioso, un amore disdicevole e profano differente da quello innocente e casto, invece raccontato in “La canzone di Marinella” dipinta da tocchi lievi di natura, candida e pura come una rosa. Le dualità sono caratteristiche preminenti in De Andrè, l’hanno perseguito in tutti i suoi anni di carriera e hanno fatto da scenografia alle sue opere. Egli si dichiarò sempre ateo in tutte le sue interviste eppure, nelle sue composizioni, affiora ancora una volta, una fortissima antinomia, come nel caso di “Laudate Dominum”, “Si chiamava Gesù” “Preghiera in Gennaio”. Emerge quindi, una spiritualità, una fede, molto più profonda di tutti coloro che si dichiarano, apertamente, praticanti e cristiani. “… il quinto dice, non devi rubare e forse io l’ho rispettato, vuotando in silenzio le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato, ma io senza legge, rubai in nome mio, quegli altri nel nome di Dio…”. La morte è uno dei temi sostanziali nella sua discografia; egli fortemente la temeva, eppure costantemente la ripercorreva e la richiamava nei suoi testi, quasi come se cercasse di vincere la sua fobia parlandone e rendendole aspetti sempre nuovi. E ancora una volta la morte assume due volti, quello della liberazione e quello del temuto evento,così come viene citato in “La morte”. E come non riportare il tema del Mediterraneo, del viaggio, della partenza e del ritorno, che non sono solamente eufemismi letterari ed esistenziali, ma emisferi del nostro essere. Parlò molto della sua tanto amata e odiata Genova, molte volte al centro di questo suo viaggiare tra miti e riti, città che richiama in lui il tema del mare, della città vecchia , delle prostitute, del porto. Questa città è anche la sua infanzia, ricordata con sogni e tocchi mitici, di leggenda, che si riversano nel sogno, come nel caso di “Giordie” e “La leggenda di Natale”. Fabrizio ha regalato, alla parlata, ritmo e profondità senza eguali, ricolmi di simbolismo e suggestivi aspetti di vita reale, talvolta contadina e nel contempo di imponente valore. Il linguaggio utilizzato dal cantautore è molto variegato, poiché egli amava penetrare le civiltà e le diverse etnie, i costumi e le nostalgie dei popoli. Per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni della sua vita scrisse in dialetto sardo, offrendo al suo pubblico una meditazione di straordinario spessore umano. Egli stesso affermò: “Meno male che questi dialetti non si perdono, malgrado l’ostracismo della televisione…”. Scrivere letteratura in dialetto è una forma molto pregiata, e di questo ne parlò anche lo stesso Pasolini secondo cui il dialetto è il popolo e il popolo è autenticità. La sua dualità è una concezione non contraddittoria della vita, ma focalizzandone gli estremi di ogni frontiera, da volto ad una visione completa. Essa rappresenta una metafora fondamentale per comprendere la sua un’anima a dir poco straordinaria, splendida e poliedrica ma soprattutto umile “…dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” .

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