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L’America non è onnipotente e Obama lo sa

Il presidente ha teso la mano al mondo islamico ma una parte di questo ha risposto stringendo il pugno e intensificando la campagna di terrore

Lo dicono in parecchi ormai e comunque in molti lo pensano: Barack Obama è una reincarnazione di George W. Bush? In apparenza sì: non parla proprio come lui ma manifesta la ferma intenzione di agire in modo non troppo diverso dal suo sfortunato predecessore le cui strategie egli si era ripromesso e aveva promesso di capovolgere. Arrivato alla guida di un'America coinvolta in due guerre rischia adesso di impegnarla in quattro conflitti.
Scartato l'Irak ormai in via di smobilitazione, la Superpotenza si impegna a fondo ora (dopo otto anni abbondanti di tergiversazioni) contro l'Afghanistan talebano, entra nel vivo del problema del Pakistan, "gemello" ingigantito e inaugura o sta per inaugurare vigorose campagne nello Yemen e in Somalia. Come se un tentativo fallito in modo quasi grottesco di reiterare il colpaccio delle Torri Gemelle del 2001 avesse riportato la situazione al tragico punto di partenza oppure mescolate le carte per una partita globale senza precedenti. E per di più, dicono i compilatori di questa impreveduta identificazione, con un linguaggio quasi irriconoscibile nell'uomo che si era impegnato con i suoi elettori e col resto del mondo a un rinnovamento profondo del ruolo planetario dell'America.
C'è chi ne approfitta per abbozzare addirittura un ritratto inedito di Obama, per attribuirgli una palinodia oppure insinuare invece che i suoi veri sentimenti e intenzioni sono sempre state queste. Può esserci del vero ma in misura più pittoresca che reale. Non c'è motivo per ritenere che Obama abbia rinnegato la sua strategia a lungo termine, la sua volontà di migliorare e riequilibrare i rapporti con i partner degli Stati Uniti, dalla Russia, alla Cina, al mondo islamico, all'insegna del riconoscimento che l'America non è onnipotente, non può fare tutto da sola e che è essenziale, a lunga scadenza, che diminuisca il numero dei suoi nemici. Il cambio di tono, evidentemente e comprensibilmente nei confronti dello Yemen (ma anche della Somalia) è conseguenza in primo luogo della realtà che una guerra la si può fare anche da soli ma che per fare la pace bisogna essere in due. Obama ha steso la mano al mondo islamico ma una parte di questo, la sua frangia militante, estrema, jihadista, ha risposto stringendo il pugno e intensificando la campagna di terrore. Non era del tutto imprevisto almeno come scenario alternativo e nulla vieta di pensare che Bin Laden e i suoi vari emuli abbiano reagito come stanno facendo per un motivo non interamente assurdo: perché hanno paura di Obama, proprio perché Obama cerca un dialogo con le masse musulmane (oltre che coi governi "moderati", in genere di insufficiente credibilità), gettando sulla bilancia "armi" che non sono soltanto missili ma anche una credibilità, un appello, una conoscenza quasi "interiore", le sue esperienze personali, i suoi ascendenti ed avi, il suo stesso nome. Tutto insieme, una specie di "eresia" che i fanatici sentono il bisogno di reprimere, cancellare, sterminare. Una controstrategia non priva di possibilità di successo a causa della diffusione geografica del jihadismo, ormai non più limitato al Medio Oriente: lo squilibrato attentatore di Detroit veniva, dopotutto, dalla Nigeria, a migliaia e migliaia di chilometri dai campi di battaglia del Medio Oriente e dell'Afghanistan.
Ci sono naturalmente anche le concause, di segno diverso e contrario, radicate non nell'ingigantito teatro di guerra ma nella polemica politica negli Stati Uniti. I nostalgici e i "continuatori" delle orgogliose verità bushiste si sono lanciati sull'occasione con un fuoco a volontà sull'"usurpatore" che siede alla Casa Bianca. Con più eloquenza di tutti l'ex vicepresidente Dick Cheney, che ha scagliato una vera e propria filippica, una "catilinaria" dall'eloquenza quasi ciceroniana e con cadenze suggestive in una serie di "domande": "Perché Obama non vuole ammettere che l'America è in guerra? Perché un riorientamento e una rinnovata polarizzazione sul conflitto "ostacolerebbe" le sue strategie di "riforme" interne, che gli oppositori più estremi da tempo definiscono "rivoluzionarie", "antiamericane" e addirittura "socialiste" anche al costo di "indebolire l'America di fronte al terrore". Un esempio solo: la chiusura di Guantanamo anche dopo che alcuni sospetti detenuti si sarebbero gettati in braccio alla guerriglia una volta scarcerati. Argomento emotivamente convincente, anche se i protagonisti sono stati liberati prima che Barack Obama salisse alla Casa Bianca e dunque per disposizione del governo Bush-Cheney. Precisazione troppo sottile, che non può bastare da sola a frenare l'offensiva. Obama non ha in realtà scelta: deve per prima cosa dimostrare che la "sua" America non ha perduto né le capacità militari, né la volontà politica di reagire colpo su colpo agli attacchi dei terroristi. Anche a costo di estendere le operazioni a nuovi "fronti" e a nuovi Paesi. "Due, tre, cento Yemen". Nello slogan risuona una volta di più l'eco del Vietnam.
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